archivio per giugno, 2008

gelatina & fotoni: ancora arabi [parte II]

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la grossa nera - rue faubourg du temple

Hai solo fumo blu nella testa e nei polmoni.
E questa sera in fondo non è neanche troppo dorata.
Questa sera è mezza azzurra e mezza blu.
Giustamente: come il fumo nella tua mente e la nebbia nelle tue ossa.
La sera è blu e quasi fa freddo a pensarci.
Che avresti quasi bisogno di un maglione.

Ma avresti anche bisogno di un occhio che allontani ed ingrandisca ad un tempo.
Che esso ingrandisca ogni singola faccia di ogni singolo passante che si imbatta sul luogo del delitto.
Che si imbatta in una specie di RITTTTTTAAAAAAALLLLLLLLLL stordito dalla sua macchina fotografica. Con un cannone al posto dell’occhio, che spara uno scatto

appena ed incide sulla gelatina all’argento ed al bromuro l’immagine di
- un marciapiede che sale verso l’alto
(percorso da)
- una
grassissima africana nera di spalle che faticosamente lo risale, il capo coperto, costume tipico a fiori, verde
- qualche paletto con la testa bianca
(o cerino da marciapiede)
(al periferico, forse)
- una macchina che passa
- le mo-bi-let-te
- una bici
sguardi sfuggenti
Ma
La luce è talmente blu
L’ombra dei palazzi è così fredda
e pazza

La pellicoa così bianco e nero
che
- il tempo di ripresa è stato troppo lungo
così la gelatina il bromuro l’argento il polimero complesso e tutto l’ambaradam avranno preso si e no
- un corpo grasso, grigio,
- con forse qualche fiore bianco che si distingue
- scie di volti e braccia e gambe
- ed un fiammifero di strada, unico fermo in questa risacca di cellule e vento
uno di quelli con la testa bianca il corpo marrone e la mano di qualcuno sempre poggiata sopra
e quasi ti dispiace d’avere sprecato lo scatto.
E speri nella fortuna.

Ma quello arriva.
Cazzo: arriva e si infuria.
La scena lui se la cucca subito.
E quasi a bassa voce dice
“urgluglrlulgllguuuelleleluuffu-fu-fo-photo”
capito?
“urgluglrlulgllguuuelleleluuffu-fu-fo-photo”
Roba dell’altro mondo.
Roba che lo ignoro, che altro fare?
Roba che la donnona dall’aria grassa e gioviale si volta e mi guarda.
Roba che le sorrido, perdio.
Costoro mi sono simpatici.
A priori.
Come pregiudizio: giudizio emesso prima.
Mi sta simpatica questa gente.
La parola è SOPRAtTUTTO.
Anche quando essa fa male e provoca onde d’urto ed ossessioni e disperazioni.

Certo certo.
Certo certo certo.
Ma non ci hai fatto caso,
hein?
Non-ci-hai-fatto-caso?
Quello ha una barbetta strana. Una specie di pelata al contrario.
Peli di culo lunghi lunghi lunghi piantati proprio sopra l’insieme mentopappagorgia.
Anzi. Si direbbe proprio che questi lunghi e storti pelazzi siano proprio messi lì a coronare in una specie di aureola rossiccia il brutto complesso rigonfio mentopappagorgia che sostiene alla lontana il naso aquilino.
Eh si.
Una barbetta rasata tutto intorno a spuntare da orecchio ad orecchio.
Tutto sta sotto un cappellino egiziano.
Cappellino. Cartellina verde. Coranino in una mano e la benedizione di Allah (che Dio l’abbia in gloria) forse nell’altra.
Insieme al candido costume dello studente coranico.
Ma-non-ci-hai-fatto-caso?
Ma che cosa sarebbe ’sto studente coranico?
Che cosa, s c u s a?
Perché avrei dovuto? Mica sono razzista io.

gelatina & fotoni: ancora arabi [parte I]

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temple - senza titolo

Questa volta hai proprio esagerato.
O è Parigi che ha esagerato.
O la televisione.
Quella però, a dire il vero, esagera sempre.
E quindi non mi trovo a navigare, stavolta, ma mi sto nei miei pensieri.
Lo sguardo si chiude dentro al parallelepipedo della scatola ottica.Quadrato di specchi quadrati.

Dicono che dalla scatola ottica la realtà sembra più bella.
Essa è più lucida.
Indurisce i bordi passando per la lucentezza del vetro. E’ sempre luce.
Ma è luce più bella.
Tre dimensioni.
Ma che dici? Hai bisogno della terza dimensione per farne due?
Hai bisogno di eliminare per avere un punto di ripresa?
Il punto di ripresa è ciò che ora, qui, stai escludendo.Forse avresti dovuto escluderlo da subito? Che dici? O vuoi che tutti i dettagli siano sempre regolati?

Ed allora mi ritrovo sempre più spesso con l’occhio piantanto sul lentino ed il lentine dietro al cubo di vetro ed il cubo di vetro col suo specchio e con la sua proboscide telescopica davanti che prende l’immagine.
La gira e la rivolta, e rispetta tutte le simmetrie.
Specchio glacialeimplacabileetereo.
La passa dentro la mia testa che la fa passare attraverso un
miliiiiiiiiiiaaaaaaardoooooooooooooodimiliaaaaaaaardiiiiiiiiiii
di impulsi neuronici.
Come cascata di chimica.
Come allucinazione.
Come una quadratura più rotonda del mio sguardo periferico.
Riduco lo sguardo perifico dentro un apparecchio per prendere la realtà.

Me ne impossesso.
La sviluppo a mio piacimento.

Anche quella volta mi trovo così.
Sono matto.

E tiro metri su metri di polimero violettotrasparente e gelatine a dismisura ed acidi per lavarle e luci per guardarci attraverso.
Il processo della luce.
Che copia in negativo ciò che entra in positivo e torna negativo e torna positivo in un processo di trasformazione e reversibilità virtuosa.
Reversibilità della luce.
E’ per questo che non si deve credere a luce e luminescenze.
Esse ingannano e s’invertono.
Rubano, esse, il vero al vero.

Ed allora?
Allora in tutti questri kilometri di pellicola una volta mi prendono per una spalla.
Mi mostrano un distintivo tirato fuori dal giubottaccio di pelle.
Mi vogliono togliere la macchina e la pellicola e tutto.
Mi distruggerebbero anche il cervello.
Lo esporrebbero alla pioggia aggregante dei fotoni.
Me lo opacizzerebbero al nero o al bianco della totale assenza di contrasto.
Sto fotografando un ministero.
Sono davanti al lago dell’EUR.
Mi salvo solo dopo qualche ora.
E salvo pure le pellicole.

“Marescià, ma lo lasci stare, chiss’ studente di fotografia è…”

Ed allora?
Allora mi proietto a qualche mese più avanti.
Giu per la discesa della rue faubourg du temple.
Sempre lì, te: sembra che tu non veda altro, no?

No.

Non vedo altro.

Vedo solo il fiume incessante della gente sul lucido del pavé appena lavato.
Vedo la llllllllllllllllllluce di una sera rossa che scorre sotto i miei piedi.
E vedo dalla distanza di dieci millimetri TUTTO IL MONDO.
Da un OCCHIO come se fossi un

polifemo meccanico.

In locomozione verso il fiume della folla che compra e mangia e parla e puzza e profuma e guarda.
E questo occhio mi si chiude e passa facilmente a raffiche di NEROCIECO.
A raffiche che prendono il tempo e lo arrotolano su una stringa di 120 cm (e qualche ritaglio).
Vedo tutto questo.
Il mondo e più bello se capovolto e riaddrizzato dall’occhio di una reflex.
Ma quella volta.

Sorpresa.