archivio per ottobre, 2009

Spencer Tunick: foto o performance?

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spencerTunick

Video: leparisien.fr

Le foto di Spencer Tunick non sono particolamente interessanti da un punto di vista tecnico.
La qualità di questo straordinario artista risiede suprattutto nell’istinto teatrale necessario al controllo delle enormi masse di persone che docilmente si prestano alle sue performance, denudandosi nei luoghi più impensati del mondo: dagli alti ghiacciai in estinzione, alla Piazza Rossa; da Città del Messico a Londra; dai remoti deserti naturali alle affollate metropoli occidentali.

E sono performance, appunto, quelle di Spencer Tunick, in cui si ha l’impressione che la fotografia sia solo uno strumento di documentazione di un atto collettivo e naturale rivolto all’esperienza della diversità. Qui la fotografia non sembra, insomma, l’oggetto della riflessione artistica, ma il mero strumento, la traccia, di un gesto altrimenti muto.

L’incrocio delle tematiche sollecitate da questi nudi collettivi si articola su più livelli tematici. In particolare, la diversità delle nudità reciproche, esprime la diversità della
condizione razziale e la rende impossibile e paradossale.
E ancora il nudo è presentato come la possibilità di esplorare azioni e reazioni al di là dell’abitudine e delle maschere quotidiane.
Al di là dell’abito, per esporre una comune natura umana, misteriosa e meravigliosa, sia che occupi il marciapiede di New York sia che si stenda su un molo del mare grigiomercurio d’Irlanda.

Ecco una rappresentazione della fragilità umana: nudo in una biosfera in equilibrio precario, l’uomo assume una bellezza eterna ed asessuata, perché esposto nella semplice perfezione del divino.
Le masse che popolano queste immagini sembrano colonie batteriche, aggragazioni di una delle infinite forme di vita che abitano il pianeta. I corpi si combinano in frattali rosa e neri e bianchi, puntuti delle braccia e delle gambe di una coreografia statica, quasi a dischiudere la conchiglia, il coocoon, che scherma le nostre esistenze.
Nei vestiti si incrostano i retaggi sociali e quelli comportamentali, e attraverso l’abbigliamento si esprimono ruoli sociali, forme di segregazione, culture: tutto ciò che ci rende umani, ma che ci fa anche dimenticare della disarmante verità dell’uguaglianza.
Il corpo vecchio ed il corpo giovane, il colore della pelle e quello dei capelli, altezza e grassezza. Nella massa le caratteristiche fisiche e sessuali passano in secondo piano. E la differenza così nettamente esposta diventa appartenenza univoca alla sola razza che conti: quella umana.
E così le masse nude si fanno riunioni di angeli asessuati. L’eguaglianza è assoluta nella pure totale varietà di forme e colori.
Eccoli gli uomini di fronte al cosmo. Esseri persi in remote terre desolate, abbandonati da una divinità muta e severa nell’immensità dell’ecosistema e dunque stretti fra di loro per rubare forza e calore all’atmosfera.

Rimane solo la bellezza della varietà umana e naturale, in una astratta geometria della visione.
Le skyline e le architetture ne risultano scolpite, incastonate, di pelle e di carne.
E’ una specie di rito collettivo che si è ripetuto qualche giorno fa, il 3 ottobre, in Francia, in occasione di una azione di sensibilizzazione organizzata da Greenpeace, che in collaborazione col fotografo ha realizzato una campagna contro il riscaldamento globale, coinvolgendo 720 volontari che hanno passato un pomeriggio a passeggio (nudista, certamente) in una vigna della borgogna.
Sembra infatti che il riscaldamento globale avrà effetti significativi sulle zone vinicole, che già oggi si spostano progressivamente più a nord, con conseguenze ancora imprevedibili per le regioni cui fino ad oggi era riservato il privilegio divino dell’uva.

Al di là dell’impegno politico e della bellezza puramente visuale delle immagini prodotte da Tunick, restano numerose le perplessità su questa fotografia smaccatamente spettacolare, high budget, che mette una idea (le coreografie di massa, l’effetto straniante delle folle nude) al di sopra di ogni altro elemento estetico.
Una parte su tutte le altre. Tanto che viene da chiedersi se sia veramente il mestiere del fotografo a fare la differenza.

Le bal retrouvé (dans la ferme)

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bal de bardak

Ce n’est point un simple endroit où aller danser. Une fabrique à argent non plus.
Les bals du collectif Kouzkmienko sont des prises de consciences, ou – si vous préférez – des gestes politiques.
Kouzkmienko ! Pour ceux qui ne le savent pas encore, il s’agit là du nom de l’heureuse tribu qui s’obstine et persévère depuis quelques années, dans l’idée que les endroits où on va s’amuser peuvent aussi être des lieux de rencontre. Car il est peut être malsain le monde où la Nuit Blanche n’est qu’une occasion annuelle d’évaluer l’attractive touristique de nos villes et se prendre une pause de la télé.
Et voilà alors : la formule est la même des Bals de Piano d’antan, avec les mêmes explosions de créativité musical, le gout pour la performance, la poésie qui passe à travers le circuit crépitant d’un mégaphone, la théâtralité, toujours la théâtralité sous-exposée dans l’allure des musiciens pauvre et bohémiens.
Vinicio Capossela, je parie mon stylo, aimerait bien s’unir à cette masse de chapeaux à la balalaïka et au trombone, un peu Tom Waits et un peu valse musette.
Mais cette fois, on objectera, on n’est plus dans la décadente usine de pianos.
Mais ils ont pensé à tout ces malins de KouzkmienkoS ; ainsi ils ont changé le nom de Bal de Piano en celui, bien plus tzigane, de Bal Bardak, peut être pour signaler l’heureuse nouveauté : l’endroit, capable (et je parle à ceux qui avaient aimé les efforts pour monter la « France des Caves » mais qui ont aussi trop transpirés sous terre et trop regretté la vielle usine de Montreuil) de faire oublier le passé récent, avec un autre passé, celui d’un impressionnisme dansant, jamais mélancolique ou anachronique, mais ivre et vivant comme un « Bal au Moulin de la Galette ».
Cet endroit est « la Ferme du Bonheur », paradis – mon Dieu, je ne veux pas être rhétorique – au milieu du béton, les tours de GothamParisDéfenseCity juste en face. De l’arrêt du RER il faut passer dans l’université et puis se jeter aux pieds des hauts immeubles tout au tour.
La ferme est une ferme pour de vrai : et ça se trouve qu’un cochon s’endorme même si vous faites beaucoup de bruits autour de lui, et on a vérifié la même chose chez les colombes qui se réchauffaient tranquilles dans le grand vacarme de la sarabande juste au dessous de leur grande volière.
Et sinon, si vous aimez le western, les chariots typiques vous attendent. Mais vous pouvez plus simplement faire connaissance du chat de la maison, qui s’occupe avec plaisir des moutons ; ou encore ignorer l’animalerie et passer directement au délire collectif d’une centaine de personnes assises par terre, qui se reconnaissent dans des cris et des gestes insensés, une façon de retourner à la réalité.
La musique est encore une fois l’indispensable hypnotisme analogique des groups historique d’une certaine Paris underground : Gallina la Lupa et Tonino Cavallo, mais aussi Imbu, Bania, Telamure, Vilain Poncko, La Grappa… Tous prêts à engager la Taranta finale, les corps morts des gens tout au tour, décimés par le rafles des tambours.
Et s’il fait trop froid à l’extérieur et sur les pelouses qui restent entre les chapitrons du cirque à coté, si vous en avez marre de bouger, ne vous inquiétez pas : le vin n’est pas chère et la soupe nous rappelle certaines dimanche passées à l’ombre du Théâtre de Verre de Louis Pasina.
Et puis quelques matelas au cas où le vin soit trop et exagérée la fatigue.