Ai fantoccini meccanici

scritto giovedì 26 ottobre 2006 alle 10:03

L’avanguardia guarda indietro. Quel che era protesta ideologica e politica, quel trucco e quell’anima del teatro e del cinema che ci hanno fatto amare Mejerchol’d, Vertov, Ejzenstejn, sono inevitabilmente passati dall’altra parte della barricata. E con loro tutta la ricerca sul linguaggio che doveva rappresentare l’ambita liberazione delle coscienze.
E’ quello che sostiene il giovane Massimiliano Civica con il suo “Ai fantoccini meccanici”, presentato dal 7 al 16 marzo al teatro Furio Camillo, seconda tappa di un cammino registico che sembra promettere molto alla scena romana e non solo. “No logo” diventa un logo, il manifesto del Che Guevara un oggetto del consumismo, “La natura non indifferente” di Ejzenstejn un testo buono per la comunicazione pubblicitaria. E’ il nostro tempo, l’altra parte della barricata in cui gli illustri russi non si sarebbero mai sognati di passare.
E’ così che Civica chiama in soccorso la cultura folklorica slava ed un (anonimo) elisabettiano. Scelta impervia, che pone i protagonisti delle due vicende ai quattro angoli del palcoscenico, due a due invisibili agli altri, per condurre narrazioni destinate a non incontrarsi. In breve: il montaggio alternato resta, ma svuotato della sua funzione allusiva, privo di “attrazioni”.
L’aspettativa psicologica dello spettatore di vedere finalmente incontrarsi due vicende, che hanno in comune la precisa scansione temporale e la ritualità, viene tradita. Resta soltanto il tempo. Un tempo particolare, lento e paziente, cui oggi non siamo abituati. Ne nasce una costruzione incentrata sul rifiuto, volutamente minimale – priva di quello che non è strettamente necessario – finalizzata ad una fruizione anomala, deliberatamente in rapporto dialettico con la realtà corrente.
Le storie. Ogni notte per sette notti due assassini preparano l’omicidio di Feversham che fallirà. Ogni notte per sette notti due donne pregano, ma una di loro è perseguitata da un esserino che le dorme nell’ombelico, per catturarlo userà una tinozza e scoprirà infine che l’esserino è la sua stessa amica.
Il punto è che le astuzie di Duchamp non provvedono più alla cura dell’anima, perché il mondo televisivo-pubblicitario in cui viviamo è inesorabilmente duchampiano. L’opposizione di Civica non poteva essere più elementare: cambiare le carte del gioco, tornare ad una fruizione che non abbia bisogno di nessuna forma di sensazionalismo. Vivere il tempo dello spettacolo come l’uomo è stato abitato a vivere il suo tempo prima della comunicazione globale, sfidare un pubblico che divora videoclip fin dalla più tenera età.
L’esserino nella tinozza è la stessa avanguardia, incagliata nel paradosso insanabile di protesta-contro e strumento-per la comunicazione. Punto di svolta significativo, considerato anche il precedente spettacolo di Civica, “Andromaca”, emozione pura, che si dava anche al di là della riflessione scenica.
Ma può durare? Wahrol il genio filmava per giorni interi uomini dormienti. Arte senza compromessi ce n’è stata; qualche volta è finita nello sbadiglio, qualche altra volta nella tinozza, quasi sempre ha perduto la sua amicizia col pubblico.
“Ai fantoccini meccanici” merita di essere visto, merita attenzione perché regala ancora emozioni. Ma, attenzione, il filone non è inesauribile.

Visto al teatro Furio Camillo in marzo 2003

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