Arena olimpia per orge anarchiche

scritto sabato 3 marzo 2007 alle 13:39

L’incredibile ascendente del circo sul teatro e, più in generale, sullo spettacolo riemerge di continuo, diventando cosa talvolta addirittura urgente. E’ il caso del nuovo spettacolo di Enzo Moscato, Arena Olimpia, variopinto collage di generi, orgia anarchica, vero e proprio balletto divertito e tragico fra due testi in osmosi, La musica dei ciechi (di Raffaele Viviani) e Mirabilia Circus (dello stesso Enzo Moscato), innovazione nel “complesso e vivo solco della tradizione”.
Una strampalata orchestrina di ciechi per convenzione o imbroglio (interpretata da I virtuosi di San Martino), diventa così l’immagine del teatro stesso, che si configura come contenitore inesauribile e vasto, al punto da conservare nel suo ventre grottesco infiniti e contrari generi, pronti a farsi strada, amalgamati fra loro dalla straordinaria ritmicità e coesione degli attori.
La cecità è un punto di vista e il teatro una Torre di Babele, luogo estremo della comunicazione universale, in cui l’uomo-regista sfida Dio nel desiderio di onnipotenza; la stessa onnipotenza del domatore nella gabbia dei leoni, nell’utopia eterna di tenere al guinzaglio il Dionisiaco. Ma anche teatro scurrile, Arena Olimpia appunto, il luogo malfamato delle prime prove attoriali di Viviani, mercato del pesce e palcoscenico su cui immolare i propri personaggi, dove la truffa e le urla sguaiate si compongono con aulici “funere mersit acerbo”, nel carosello infinito dei pastiche linguistici cui Moscato da anni ci ha abituati.
Ed è in questa mescolanza poliedrica (e per certi versi spiazzante) che si rende possibile l’incontro di un autore dotto come Moscato con la semplice, popolare, incisività di un Viviani, del quale il primo coglie l’aspetto più scalcinato ed affascinante: la sacra macchina dello spettacolo vive anch’essa, come il più umile dei mestieri, di “un chilo di carne, un chilo di pasta, un chilo di pane, un litro d’olio”, in un quotidiano e macchiettistico “tirare a campa’”.
Eppure questo delirio onirico di personaggi risente di una durata forse eccessiva: l’ininterrotto fiume di parole di cui lo spettacolo si nutre, finisce col creare nello spettatore quasi una vertigine, a mettere a dura prova la percezione e la riflessione, in un incanto ammaliatore che finisce col suggestionare più l’occhio (o l’orecchio) che la mente, e non di rado si ha la sensazione che il posto del mondo povero sia una scintillante vetrina o forse una gabbia.

(visto al Valle di Roma – marzo 2001) 

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