Endstation Amerika: Castorf vs. Williams

scritto giovedì 15 febbraio 2007 alle 10:31

endstation amerika

Il teatro può essere ancora provocazione e critica politica? Si può ancora pensare ad un’arte drammatica che, senza mai rinunciare al gusto per la narrazione, provochi e renda imprevedibile il proprio rapporto con il pubblico?
Frank Castorf , una delle realtà teatrali tedesche più interessanti di questi anni, pensa di si, e lo dimostra nell’ambito della rassegna Romaeuropa, con “Endstation Amerika”, da “Un tram chiamato desiderio”, straordinaria ed anarchica rivisitazione del dramma di Tennessee Williams.
Versione anarchica appunto – il 31 ottobre e 1 novembre in prima nazionale al teatro Argentina – in cui Castorf accumula linguaggi e generi, saldandoli in una irresistibile ironia, i cui risvolti drammatici acquistano la forza tagliente della parodia. Senza censure: il regista berlinese non rinuncia allo scandalo come il Kazan cinematografico, e – pur evitando di mostrare gli stupri e le botte del dramma originale – sottende il racconto di acre violenza ed erotismo, costringendo i personaggi ad una danza che oscilla continuamente fra soap opera e tragedia.
C’è tutto un universo di follia metropolitana in questo “Endstation Amerika”, i riverberi di una società sempre più pubblicitaria, addirittura intessuta di jingle e frasette lancio, fatta di telecamere nei gabinetti degli studi televisivi e di nudità lasciate in mostra.
Ma Castorf non costruisce solo un edificio spettacolare di grande forza critica, agisce anche sul piano della narrazione, impegnandosi a rendere i rapporti ambigui, a mischiare le carte di un racconto che procede per salti e sbalzi, e che si diverte a giocare con i sovratitoli. Si mantiene così intatta l’appassionante matrice letteraria che il testo di Williams conserva ancora, senza essere invecchiato, mutata e funzionalizzata però a digressioni metateatrali.
Tutto viene come inghiottito e digerito dallo spettacolo (o meglio, dallo show), per poi essere rigettato su un pubblico inerme, trascinato di continuo fra dramma e musical acido, in cui a far da padrona è la notevole carica ritmica. Grande la semplicità della scenografia di Bert Neumann, che – coadiuvato dalle luci di Lothar Baumgarte – ha costruito un interessante gioco di piani paralleli, che focalizzano l’attenzione su più punti, avvalendosi anche di una telecamera “voyeuristica” sulla scena, in una rievocazione che sa di Grande Fratello ed Achelon assieme.
Mistura provocatoria dei generi più disparati, quindi e non ci si poteva aspettare altro dal geniale direttore della Volksbühne berlinese, la cui produzione è tanto eclettica da annoverare assieme l’”Enrico VI” di Shakespeare con “Arancia meccanica” di Anthony Burgess, o “Trainspotting” di Irvine Welsh, con “La città delle donne” di Federico Fellini. Ecco allora il linguaggio immediato, che non rinuncia neanche un attimo a numerose citazioni ed ascendenze in chiave parodica, riscoperte qua e là a spasso fra cinema e televisione, pur mantenendo intatta un’espressione puramente teatrale.

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