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a un certo punto della vita dovresti impegnarti seriamente e smettere di fare il ridicolo
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Incantevoli gli spazi del Teatro della Limonaia di Sesto Fiorentino.
L’ambiente, anche, rilassato.
Forte la carica emotiva per le mura ed il luogo che hanno il primato italiano della precoce scoperta di Rodrigo Garcìa.
Meno incantevole invece l’evento che hanno ospitato ieri sera e che ospiteranno fino a domenica 16. E stavolta non è solo per la natura che diremmo “anti-estetica” del talento ispanico-argentino.
Quello che è mancato è stato il picco emozionale. L’adrenalina e l’eccitazione funesta di Agamennone, ad esempio. O l’ironia graffiante di Ho comprato una pala da Ikea.
E non si capisce se sia volontario (ma siamo nel terreno delle ambiguità di Rodrigo Garcìa) che il titolo – il lunghissimo titolo – A un certo punto della vita dovresti impegnarti seriamente e smettere di fare il ridicolo, rispecchi effettivamente una certa stanchezza nei movimenti; rispecchi la parabola discendente di una protesta che dopo quasi un decennio di contestazione dei loghi ha ora acquistato e sviluppato i suoi propri.
Garcìa è troppo intelligente per non accorgersene.
E allora ci risiamo? Siamo ancora alla fase del Comer mierda?
La domanda in sala se la fa Garcìa e se la fa anche il pubblico.
Ed eccoci accontentati: una tavola sul proscenio raccoglie una notevole collezione di stronzi fumanti. Dietro, un materasso fa da nido familiare. Appena a sinistra un tavolo delle torture che vorrebbe esser perturbante. Una bolla con un pesce dentro che non fa per sua fortuna la fine dell’astice in padella. Infine un boschetto da appartamento ed un tavolaccio.
Visioni allucinate della famiglia, che si perde nella monotonia dei giorni di questo nostro Occidente Alienato: l’azione inizia con un piano doppio di rappresentazione, gli attori collegati a microfoni e rozzi altoparlanti ad occupare l’alcova d’amore. E poi questa alcova d’amore che si riempie di merda e vomito. La situazione che degenera. Si improvvisano azioni. Gli attori finiscono sepolti o innaffiati ad alta pressione.
Tutto già visto, certo, ma rimane la forza teatrale di alcune invenzioni. Rimane la forza di descrizione dell’oggetto e l’anarchica invenzione visiva. Rimane una gomma da cancellare enorme, sul fondo, che si consuma mentre gli attori decidono cosa cancellerebbero del mondo. E rimane un rotolo di parole ed interrogativi sull’ordine razionale e tecnocratico di questo mondo da cancellare: rotolo che si svolge dalla bocca e dal ventre dell’attrice, tirato (e letto) dal pubblico.
Dico asino ad uno e compare un asino in scena: sono le attrazioni di Ejzenštejn che Garcìa usa a guisa di sintassi della scena; si tratta di una forza di suggestione che attraversa il senso delle immagini e gioca col linguaggio televisivo e pubblicitario.
Gli attori tutto fanno e disfanno, stavolta si, nell’anarchia di una condizione anti-attoriale, distesa, colloquiale, con Luca Camilletti che esprime la sua esperienza al seguito dell’argentino e Jorge ed Agnès che si esprimono in spagnolo e snocciolano un italiano stonato.
Ma è forza espressiva persa – a malincuore – nell’assenza di lacerazione.