archivio per aprile, 2010

i libri? non ve ne libererete mai!

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« Non sperate di liberarvi dei libri ». Suona come una minaccia ma è il titolo un po’ pulp scelto da Jean-Philippe de Tonnac per la conversazione da lui condotta con Umberto Eco e Jean-Claude Carrière, dedicata all’invincibile attualità del libro.
È una conversazione sul senso del libro nelle nuove e venture Galassie Gutenberg dei linguaggi digitali.
A cosa serve il libro oggi?
Continuerà esso a mantenere la sua forma?
Oppure si troverà irrimediabilmente modificato dall’avvento degli e-book e delle nuove tecnologie informatiche?
Eco e Carrière non hanno dubbi in proposito: « il libro è come il cucchiaio, il martello, la ruota, le forbici. Una volta che li hai inventati non puoi fare di meglio ».
È tutto qui il senso di questa gaia scienza, leggera, appunto, ma anche parca di spunti di riflessione davvero innovativi, al di là del motto appena esposto e d’altronde scritto anche in quarta di copertina.
Gli spunti ci sono, ma si resta sempre sulla superficie delle cose, e si ha come l’impressione che le fonti originali delle riflessioni siano come occultate: dall’elogio della stupidità da cui ci si aspetterebbe una patafisica citazione di Alfred Jarry, alle biblioteche immaginarie o possibili, che stranamente non richiamano neanche per un istante le “notti di inverno” partorite dalla mente di Italo Calvino.
“Niente fermerà la vanità”: riprendiamo il titolo di uno dei capitoli del libro per dire che le due personalità di Eco e Carrière sono talvolta così ingombranti da non lasciare più spazio al vero centro della conversazione, in un esercizio di retorica che ha appunto troppo della vanitosa eloquenza.
Così, per esempio, dell’influenza del supporto sulla percezione del contenuto – non solo nel presente delle letture a schermo, ma anche nel passaggio dal manoscritto alla stampa, o dal rotolo al volumen – apprendiamo poco, mentre sappiamo di più delle collezioni personali di Eco e Carrière.
Da due bibliofili di lungo corso ci si aspetterebbe qualcosa di più profondo. Ma certo, la lettura ha qui il pregio di scorrer rapida e piacevole, fra aneddoti personali e le rilassate pose dei grandi collezionisti.

un’ora sola ti vorrei

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Diario, memoria personale, sogno.
“Un’ora sola ti vorrei” di Alina Marazzi è un montaggio di pellicole 16mm e registrazioni audio che prima suo nonno e poi i suoi genitori, realizzarono a partire dai primi del ‘900 fino agli anni ’70.
È una memoria familiare profonda e delicata, che non ha nulla dell’epopea, perché si realizza nell’intimità dolce e malinconica di un rapporto mancato, quello con la madre, suicida a trent’anni dopo una radiosa felicità offuscata dai fumi della depressione e da un lungo calvario di cliniche, psicofarmaci e trattamenti psichiatrici.
Le immagini affiorano nel flusso sbiadito della memoria.
Leitmotiv del montaggio, il volto della madre, Liseli Hoepli Marazzi, la sua triste, algida profondità a presagio della fine violenta.
Le immagini scorrono e si ripetono in lunghe moviola fra videoarte e documentario.
La giovinezza spensierata e le lettere affettuose.
Un viaggio a capo nord.
E poi l’amore, le partenze. I saluti sulla banchina ferroviaria. Un soggiorno in America. Fino alla maternità e ad una sensazione di inadeguatezza ed indecisione che monta, monta, monta, come un insetto nella mente, di cui prende via via dominio e controllo.
Tre generazioni in scene d’interno familiare.
Un mondo così vicino eppure antico e che a tratti sembra più lieve di quello odierno, pur nella tragedia sempre sottesa, già scritta dalle prime immagini, dalle passeggiate dei bisnonni.
Memorie intime d’una intellighenzia italiana – Liseli era figlia di Carlo Hoepli, editore milanese protagonista d’una stagione culturale italiana – dietro la cui immagine di successo cova la depressione e la nevrosi, mal sottile inspiegabile ed improvviso, mal borghese, appunto, figlio paradossale del benessere e della spensieratezza.
Risuonano i temi nel Novecento in questo documentario sincero e personalissimo: vi risuona la depressione di Zeno Cosini, la malattia borghese e l’incomprensibilità di un male nuovo perché inatteso e più forte dell’amore.
La voce fuori campo impasta la memoria visiva con quella scritta; recita le frasi semplici, felici e disperate di Liseli, prese dalle corrispondenze e dai diari che l’accompagnano per tutta la vita, dalla serenità milanese alla disperazione delle cliniche svizzere, dal rapporto difficile con un padre pratico ed autoritario all’amore smodato per un uomo dolce e comprensivo.
Mondo antico, diverso dalle odierne velocità.
Un mondo di lettere e di pensieri e di altalene sospese su moli estivi.
Un mondo di cui Alina vorrebbe un’ora appena in più.

la nuvola nera dello sviluppo

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Una nube. Un blackout. I cieli d’Europa sgombri.
Chissà se nel 1821, anno dell’ultima attività del vulcano Eyjafjöll, gli europei si accorsero del fenomeno. Probabilmente no. Probabilmente gli europei, all’epoca, continuarono a vivere la loro vita senza troppi turbamenti.
Oggi, invece, la catastrofe.
Una farfalla batte le ali in Islanda, tutto un sistema sembra crollare nel resto del mondo.
È un castello di carte questa civiltà transazionale.
Così basta poco per realizzare che la nuova e perpetua transumanza transcontinentale è appesa ad un filo.
Con stupore ho appreso che solo fra le mie dirette conoscenze quattro persone erano bloccate da qualche parte in Europa. Impossibilitate a muoversi.
Fino ad oggi avevo ignorato che quattro persone a settimana fra le mie conoscenze, prendessero il volo per trovarsi più o meno istantaneamente a migliaia di chilometri di distanza.
Così mando un messaggio all’amico in villeggiatura lampo alle Canarie. Non sa quando tornerà ed è seriamente preoccupato perché giovedì deve essere improrogabilmente in Italia.
L’amica olandese resta a casa mia e rimane appesa alla comunicazione telematica per quattro lunghi giorni, cercando di capire come tornerà lassù ad Amsterdam e quando.
La sua ansia diventa la mia e nella notte fra martedì e mercoledì il mio sonno si popola di lunghe code agli sportelli dell’aeroporto di Beauvais, terminati con viaggio in macchina verso i Pirenei quando io invece volevo andare a sud, in Italia, a Torino.
Qual è la giusta direzione per Lione?
Tutti bloccati.
Tutti sgomenti.
Sarebbe bello poter fare un elogio della lentezza di questi lunghi giorni a terra, e sarebbe stato bello per costoro poter approfittare del tempo perduto, che sempre dovrebbe essere tempo guadagnato.
Ma niente. Nella civiltà del movimento istantaneo, del gratta e vinci e del mordi e fuggi non c’è tempo per prender le cose con lentezza. Quel tempo lì, il tempo morto, scivola fra le dita, e si perde nei rivoli di internet e dei call center. Nella ricerca disperata di informazioni a pagamento; nelle lunghe code agli sportelli delle ferrovie; nelle voci registrate al telefono e nei servizi più catastrofisti alla radio ed alla televisione.
Il tempo morto marcisce e basta.
Non v’è spazio per lo stallo creativo.
Anche l’aspetto delle metropoli è cambiato: prima la popolazione turistica appesa ai bar e nei vicoli, inebetita o euforica, come colta di sorpresa dal ridicolo impasse; poi, una volta trovate le innumerevoli alternative al trasporto aereo, il centro senza turisti, desertificato.
Una società che si crede forte ed invincibile, ed invece è fragile.
Fragilità riconducibile all’innaturale rapidità della comunicazione aerea, certamente; ma se pensiamo che nella maggior parte dei casi il blocco aereo è stato di tipo preventivo, ispirato, cioè alla complessità di una simulazione matematica, è facile realizzare che lo stallo è semantico. Che la civiltà tecnologica, intrisa di calcolo e pronostico, illusa di poter contenere il mondo nelle leggi della fisica e della matematica è in realtà vittima di se stessa, schiava della modellizzazione e della virtualizzazione della realtà.
Una civiltà che non intende ignorare neanche per un istante gli accidenti e le probabilità diventa inevitabilmente vittima della sua perpetua politica della prevenzione, in cui le variabili sono illusoriamente messe in fila per lasciare minor spazio possibile al caso.
Cittadini dell’impero della prevenzione siamo ormai vittima delle nostre ansie, la cui fondatezza è decisa da un elaboratore di calcoli e da una non meglio precisata previsione dei rischi e degli incidenti.
Il problema però è che in un civiltà in cui la velocità aumenta, la possibilità incidente è sempre appostata dietro l’angolo, nostra compagna ed incubo. L’incidente probabile aumenta di proporzioni; previsto o imprevedibile, possibile o impossibile, si fa sempre più artefice dei nostri destini.
È una fragilità semantica che affonda le radici nel terrore per il futuro e per la morte contro la quale lottiamo attraverso lo sforzo costante di ridurre le probabilità.
E spesso prendiamo la probabilità per certezza.
A poche settimane dalla giornata della lentezza questo blackout totale del traffico aereo suona come un paradosso.
Ci saranno pur stati dei vantaggi, dico all’amico alle canarie.
E quello: no. Anzi, una truffa delle compagnie aeree low cost che si sono comportate come in un nuovo far-west dell’aria.
Eppur piangono già, per i profitti ridotti e le perdite aumentate.
Perché poi la probabilità sembrerebbe avere un impatto sulla finanza e sull’economia.
FAR WEST.
Lontano ovest: in questi giorni sei stato ancora più lontano.
Quasi un sogno irraggiungibile.
Sulle nostre teste l’azzurro del cielo e basta.
Ad Amsterdam sembra che il cielo fosse più azzurro che nei giorni normali.
In televisione ho sentito un geologo affermare che PROBABILMENTE ci aspetta un’estate più fredda.
L’eruzione secondo costoro dovrebbe ridurre l’irradiazione solare in Europa.
Intanto ciò che non è probabile, ma certo, è che ha già ridotto l’emissione di gas serra per traffico aereo, con saldo di 206.456 tonnellate di CO2 in meno nell’aria. Tolte le 150.000 tonnellate del vulcano fa 56.465 tonnellate al giorno in meno nell’aria.
La velocità… così fragile, così costosa.