Anche una biblioteca può mettersi in mostra ed aprire i suoi preziosi forzieri al pubblico dei non addetti ai lavori. Se poi la biblioteca in questione è la nazionale di Parigi, allora i tesori in questione sono sorprendenti.
E’ il caso della mostra su Antonin Artaud che occupa in questi giorni gli spazi della Grande Galerie della BNF – Site François Mitterand.
Dal 7 novembre al 4 febbraio: è l’occasione propizia per scoprire o riscoprire l’attività di questo mostro sacro dello spettacolo, padre di tutte o quasi le tendenze dell’avanguardia contemporanea e delle loro declinazioni. Esposti nelle sale della biblioteca i “cahiers”, documenti sconvolgenti di una esistenza segnata dalla malattia mentale e dallo studio dell’irrazionale. Quaderni lavorati, tritati sotto l’impulso di una incredibile forza creativa, e quadri dell’attore e dei suoi compagni Surrealisti, spezzoni di film, interviste e testimonianze, registrazioni radiofoniche, foto. Ray, Picabia, Tanguy, Lamba, Aragon completano il ricco quadro del panorama culturale della Parigi degli anni Venti.
Malattia mentale e studio dell’irrazionale. È bene ripeterlo perché Artaud concentra la sua speculazione esattamente su questo, riuscendo a trasformale la follia ed i problemi mentali in una fenomenale spinta propulsiva verso la creazione di un linguaggio inedito, destinato a dare vita ad esperienze capitali del teatro del Novecento come quelle di Grotowskij, Brook, Barba; ma destinato anche ad ucciderlo, nel 1948, quando fu trovato nella sua stanza, una scarpa in mano, intossicato da una dose letale di Chloral.
All’età di quattro anni Artaud è vittima di un attacco di meningite. Di lì la depressione e le continue crisi di balbuzie, epilessia, fino alla conoscenza delle droghe, gli elettroshock, il coma indotto. E poi la scoperta di dimensioni “altre”, come quelle del peyote in un viaggio in Messico che fu di fondamentale importanza nell’esplorazione delle forme espressive teatrali primitive.
La formazione artistica di Artaud era iniziata a Parigi, negli anni ’20, nel contesto surrealista. È un sodalizio breve, destinato ad una frattura traumatica: quando Aragon e Breton decidono di aderire al marxismo l’attore si rivolta; l’adesione al materialismo suonava come un tradimento irrimediabile. L’attore insorge contro il marxismo, che nulla a che vedere con l’espressione artistica, con il fuoco creativo e la ricerca spirituale. Ne “Au grand jour” (1927) i surrealisti attaccano Artaud, accusandolo di plagio ed escludemdolo definitivamente dal movimento. La risposta dell’autore è secca e brutale ed arriva con “A la grande nuit ou le bluff surrealiste”, in cui si afferma il valore prioritario del sogno e dell’irrazionale in una estetica che deve essere sconvolgente, in grado di svelare la realtà attraverso il colpo duro nello stomaco e nella mente dello spettatore.
Nel 1936, in Irlanda per una serie di conferenze sul suo “sistema della crudeltà”, Artaud pretese di essere il detentore della canna di San Patrizio, ragion per cui fu espulso dal paese ed accolto dalla Francia con l’internamento forzato nell’Hôpital Generale di Le Havre. Seguiranno nove anni di internamento durissimo, quando realizzò la serie dei quaderni, esposti anch’essi nella mostra, in cui la circolazione fra espressione figurativa, scrittura, arte materica è totale.
Dopo l’internamento, la comunità artistica parigina cercherà di recuperare i rapporti con Artaud: fu il tempo della conferenza al Vieux Colombier, per l’autore estrema rinuncia al teatro poiché a quel punto «la gente meritava di essere sedotta dal suono della mitraglia». È la rinuncia più colossale, quella al pubblico, che sarà la stessa rinuncia di Grotowski. È l’eco estremo dei “sort”: le lettere ai prepotenti – gli stessi che parteciparono alla conferenza, come André Gide – con le quali Artaud si scagliava dall’ospedale contro il mondo esterno, quello del rifiuto.
Ma cos’è la crudeltà che Artaud teorizza ne “Il teatro e il suo doppio”?
È estirpare il Dio consolatorio dell’occidente. Artaud lancia uno strale messianico: ritornare al caso della bestialità. Riconoscere che l’uomo è un animale erotico. Ma attenzione: non si tratta di entrare in scena con il coltello del macellaio, ma di reintrodurre in ogni gesto l’essenzialità primitiva della violenza, «la nozione di una crudeltà universale, senza la quale non esisterebbe né la vita né la realtà». Il vate mette in guardia i suoi allievi, quasi scorgendo le trappole in cui è caduto il teatro contemporaneo, il sadomasochismo e l’oscillazione a prospettive endemiche ed irritanti: il bondage, il sangue gratuito. In un’espressione: violenza priva di sacralità. Il linguaggio di Artaud è estremo in quanto simbolico poiché «l’intelligenza è venuta dopo l’idiozia che l’ha sempre sodomizzata di sotto e di sopra» e poiché l’arte ha bisogno del coraggio di farsi peste, morte, malattia.