archivio per marzo, 2008

ueda vs. boubat: umanesimo e ontologia

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Dunes, portrait de M. Sohji Yamakawa, 1984
Due eventi colti in extremis, prima della fine prevista per il 30 marzo, alla Maison Européenne de la Photographie.
Due mostre dedicate ad altrettanti autori che in comune hanno la ricerca di una forza poetica “emozionale” nelle loro immagini, ma che sono opposti per metodi ed immaginario.
Da una parte l’essenzialità zen di Shōji Ueda in “Une ligne subtile”, mostra che ha riunito le visioni più conosciute dell’autore giapponese alle opere degli esordi; dall’altra le “Révélations” in movimento di Edouard Boubat, uno dei rappresentanti più significativi della fotografia umanista francese.
Deux petites filles, Paris, France, 1952
La foto è dunque un’emozione, taglio netto di una realtà che il fotografo espone sempre alla selezione decisa di un rettangolo: ma se l’attitudine di Boubat è quella di estrarre la sensazione direttamente dalla riduzione rettangolare di ce qui se passe, Shōji Ueda interviene all’interno del fotogramma, (dunque all’interno del mondo), segnando con un tocco sottile e quasi invisibile l’oggetto del suo sguardo.
L’arma di Boubat è lo scorrere del tempo, che viene colto con efficacia immediata, in una rappresentazione esatta del concetto di istantanea. È una fotografia di memoria, poetica in quanto umana, o meglio, in quanto celebrazione della vita e della singolarità dei volti e dei fatti: egli celebra l’irripetibilità di un momento.
Ueda è invece un architetto di immagine: la realtà per lui è interessante solo se soggetta a manipolazione, solo se la macchina fotografica, strumento di registrazione meccanica, riesce a trasformarsi in quinta scenica trasformando il mondo in teatro di figura. Basta una idea, una folgorazione, e Ueda è in grado di invertire la prospettiva, generare immagini al limite dell’astratto, trasformare tronchi d’albero in pennellate di china, bambini in giganti prepotenti, strade in piramidi di luce, dune di sabbia in yin e yang minimi, objéts trouvés in trouvailles mentali alla Salvador Dalì.
Petits naufragés, 1950
Se la fotografia di Boubat si occupa della dimensione diacronica quella di Ueda adotta la sincronia. Nelle sue immagini, così, il tempo si verticalizza: esiste solo il contemporaneamente, in una pausa – lo scarto dell’occhio che non trova points de repères – in cui l’eterno coesiste col contingente.
E allora oggi, nell’epoca dell’assuefazione all’istantanea ed al reportage, dove il tempo viene descritto in marcia verso un’unica direzione, al seguito insomma delle sorti umane e progressive, si sente maggiormente l’esigenza di una poetica immateriale come quella di Ueda, che (anche lui da un assunto di base umanista) è riuscito a sviluppare una tecnica declinabile all’assoluto dell’Essere. Inventore di una fotografia ontologica.

la nuit des abysses au jardin des plantes

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abysses 1
Il s’agit de présences magnétiques. D’éclairs dans le noir de la nuit aquatique.
Mais il s’agit de vie, même si affreuse. Vie quand même.
« D’ailleurs ils sont tous moches » : il a raison de le dire, le gamin à coté de moi à l’occasion de « Abysses », l’expo organisé par Muséum national d’Histoire naturelle dans la galerie de Minéralogie du Jardin des Plantes qui va se terminer le 8 mai.
Oui : ils sont tous moches les êtres des profondeurs océaniques, mais ils représentent une vie tant forte que fragile. Fort, car l’esprit d’adaptation des espèces est étonnant pour complexité et ténacité ; fragile car la difficulté des environnements où il n’y a ni lumière ni nourriture oblige les organismes qui les habitent à une hyper spécialisation tel que le plus petit changement peut leur être fatal. Et la surface qui auberge les hommes influence les profondeurs abyssales.
Comme ça, dans l’émergence environnementale généralisée on découvre aussi que la faune de l’entre-deux eaux et du fond des océans, représente plus de 60% de la surface du globe, et bien que l’activité humaine y ait un impact fondamental que ceux-ci ne sont protégés par aucune convention internationale.
abysses
Moches, donc, bien sur, mais uniques, aussi… en effet cette hyper-spécialisation a rendu les structures des organismes des abysses incompatibles avec les conditions “de la surface” au point que jusqu’à maintenant on n’avait jamais réunis ensemble une si grande collection d’êtres de la nuit océanique.
Au centre de la galerie un ensemble d’aquariums contienne ces organismes conservés presque comme on peut les voir en nature. Au fond un documentaire où les organismes abyssaux semblent des fantômes fantastiques. Les deux cotés du couloir noir (on est sensé de reproduire la descente dans la fosse des Mariannes) représentent les différentes couches des océans : ce qui est liquide obéit en réalité à des lois analogues à celles qui règlent les stratifications des terrains. Et à chaque couche sa faune.
Un univers en bioluminescence où la ruse pour la survivance met en jeu couleurs, éclairs, transparences qui obéissent aux lois tout à fait uniques d’un univers apparemment invivable et loin mais qui a un rôle aussi important que la surface dans la chaîne alimentaire globale.

Allah, Google, i pescivendoli [II]

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google o allah?
Alle 13.30 però Parigi me la dimentico per davvero.
Dimentico tutto, anzi.
E mi pare di affondare in un sogno magnetico.
Vedo tutto dietro una lente di plastica. La luce parassita entra in un istante e solca lo sguardo di taglio.
Lunghe righe convesse tracciano la superficie umida delle mie iridi.
Bagliori.
Mi sembra tutto fotografato da una Holga.
Mi sembra tutto troppo strano.
Sarà che ho la maglietta intrisa della sera prima.
Sarà che ho il maglione intriso della birra della sera prima.
Sarà che ho dormito poco.
Sarà che le viscere mi si rivoltano in uno spasmo e che le sento incollate dal resto della schiuma.

Non basta neanche il croque che mangio, disgustato.

Sarà il fumo blu?

O forse è reale.
Bisognerebbe controllare su google map se il giorno in cui il punto geometrico spaziale, il satellite, è passato sulla precisa vericale dei poissonniers, bisognerebbe domandarsi se questo punto inesistente, se queste ascisse ed ordinate senza volume alcuno, non siano esse per caso passate di qua, sulla verticale dei poissonniers proprio di venerdì.
Magari un venerdì alle 13.30.
Magari anche lui, stanco, ubriaco.
Reduce da una nottata in cui il sole ha lambito di sbieco soltanto i suoi pannelli fotosensibili e pertanto stanco.
Satellite stanco ed ubriaco.
Stellite dopo la festa: guarda qui, satellite.
Guarda sulla verticale della rue poissonniers alla una e trenta minuti del pomeriggio.
Di venerdì.

Allah, Google, i pescivendoli [I]

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streetbière - photorights artMobbing @ rk22.com
La notte ai tre fratelli è stata.
Nel senso che è passata.
Mi stringo nel saccoletto. E non so dove sta il nord e dove il sud.
Anche perché in barba alla persona geografia di Parigi da questa parti quando si va a sud si sale e quando si va a nord si scende.
Dice: e allora?
Allora nella precipua geografia di questa città quando sei a nord e scendi la discesa di solito vai al centro.
Quando sei ad est e scendi la discesa.
Lo sai: vai al centro.
Qui no.
Perché poissonniers contorna la collina di montmartre e si lascia dietro una discesa, fino al peripherique.
Per cui, se applichi il principio della discesa ti trovi a fare il viados sul raccordo anulare.
Oppure ti deprimi semplicemente.
Oppure non sai più tornara a casa.
Ora però non cado più nella piège.
(e ce ne è comunque voluto di tempo, e ce ne sono voluti comunque di amici nel diciottesimo)
Ora però non so neanche dove sto io.

Alle 13.00 i rumori dello chateau rouge sono come morbidi.
Rumori molli.
Faticano ad uscire dalla foschia.
E da questo freddo.
Si incollano al nulla.
All’aria.
Non ti lasciano respirare.
Si incollano alle pietre delle case. Ed al pavé, che così non riesce ad asciugarsi.
Il pavé in questo budello stretto della rue poissonniers è sempre viscido.
La notte è viscido di alcool e vomito.
La mattina è viscido delle pompe ad acqua di propreté paris.
Il pomeriggio è viscido delle scorze e degli ortaggi che
le negre
rotonde
di queste parti
vendono

per la strada.

Come fossimo in africa.
Che vendono?
Cazzo non lo so.
E’ come una foto persa.
Ci puoi girare e rigirare intorno. Non la riavrai mai.
Perché il tempo non torna.
Dice: ma a Poissonniers ci torni quando ti pare e chiedi.
Si, risponde, ma non sarà più la stessa cosa.
Ed ora io vorrei avere parlato con una di queste uova nere che se ne stanno dal primo pomeriggio al freddobuio della notte a vendere.
Il bello è che vendono davanti agli occhi dei fruttivendoli.
Davanti agli occhi di chi ha un negozio.
Non si capisce neanche se facciano concorrenza.
Il negozio non ha gli stessi frutti loro?
Allora perché non li vendono al negozio?
Il sacco nero di plastica arrotolato davanti.
Un coltello per giocare.
Sembrano vecchie e bellissime e rotonde e grasse puttane in attesa dei clienti.
Ed invece vendono delle specie di melanzane nere.
Melanzane nere e basta.
Non hanno niente d’altro, se non le parole con cui empiono questo budello fino in cima. Fino ai tetti della rue poissonniers.
Tanto per farsi caldo.
Tanto per farci dimenticare Parigi.
E pensare che io non mi ricordo neanche dove sto dormendo.
Oddio. Pensare che non mi ricordo neanche dove sono.

il sessantotto da uno che nOn c’era [III]

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vagabondo del dharma - photoright artmobbing
E c’è anche il mito della strada, nel racconto appassionato di Giuseppe Spezzaferro sul Sessantotto.
Un mito che tocca le corde profonde delle ambiguità che si celano dietro alla stagione della fantasia al potere.
Sulla strada: il sacco a pelo e la motocicletta verso il tramonto, a seguire la nuova conquista del WEST. Vagabondi del Dharma o Easy Riders. La nuova generazione della protesta viene uccisa dall’america bigotta nella fine memorabile del manifesto cinematografico della Beat Generation. Ma inconsapevolmente quella generazione ripeteva il rito dei padri, il rito della conquista (stavolta culturale) dell’altra costa. Il rito della CONQUISTA di tutto ciò che apparteneva a quelle terre.
Se gli indiani erano stati sterminati a colpi di epidemie ed alcoolismo ora il giovane americano emulava il misticismo e la spiritualità di quei popoli, trasformandoli nei giocattoli colorati delle allucinazioni lisergiche e della creatività “sotto effetto”.
Il viaggio spirituale e mentale, il viaggio fisico. Eccoli lì, come possibilità imprevista e del tutto nuova.
Ecco la scoperta dell’India e dei nuovi esotismi.
Un rito di espiazione collettiva in cui il mondo della tecnica e del fucile, l’Occidente, simulava la sua apertura, inglobando e commercializzando nell’etnica antropologica il senso profondo di quelle spiritualità “altre”.
Con questo non si vuole sostenere che la CORSA all’ovest (che in Europa si tradusse con la corsa ad oriente) non fu un risveglio, ma che solo i segni epidermici di quelle culture che si scoprivano allora potevano essere assimilati da un sistema che gli era e gli rimane opposto per interessi e stili di vita.
Uno degli atteggiamenti più paradossali della società dell’informazione veniva allora a galla, e prendiamo in prestito le parole da Marcuse per capire di cosa si tratta:
«Il mutamento di ampia portata in tutti i nostri abiti di pensiero» è più serio. Esso serve a coordinare idee e scopi con quelli che il sistema dominante esige, a inserirli nel sistema, e a respingere quelli che sono irreconciliabili con esso. L’avvento di tale realtà a una sola dimensione non significa peraltro che il materialismo regni, e che le attività spirituali, metafisiche e bohémiennes stiano svanendo. Al contrario, v’è una profusione di «preghiamo insieme questa settimana», «Perché non provare Dio», di Zen, di esistenzialismo, di Giovani arrabbiati, ecc. Ma tali forme di protesta e di trascendenza non […] hanno più carattere negativo. Esse sono piuttosto la parte cerimoniale del comportamentismo pratico, la sua negazione innocua, e sono prontamente assimilate dallo status quo come parte della sua dieta igienica.
Su questi valori culturali la visione del gruppo del Teatro sembra che non fosse differente dalle altre, se non nelle soluzioni: il popolo indiano (mitizzato forse in virtù del medesimo principio di assimilazione ideologica, per cui il più importante dei miti bohémien degli stati uniti, la beat generation, cannibalizzò le culture indigene del peyotl e della mescalina) si disgregò per la mancanza di un principio unificatore. Per la mancanza cioè di un capo militare e spirituale.
Il primato (culturale e cronologico) della Chiesa di Roma ed il primato (contingente e politico) degli Stati Uniti si spiegherebbero proprio col fatto che sono le uniche potenze in ad avere trovato una via attuale al fuhrerprinzip.
Ma se da una parte il sistema del principe-capo negli stati Uniti non ha nulla a che vedere con la spiritualità, dall’altra parte la Chiesa non potrebbe, oggi, per la sua natura dottrinale, consentire un adeguato e coerente sviluppo scientifico e tecnologico.
Poniamoci una domanda: come è possibile pensare ad una compatibilità fra democrazie dirette e principio di sovranità assoluta nel contesto della civiltà dell’informazione?
Purtroppo tale combinazione non evoca in noi che panorami di memoria orweliana.
La Chiesa Apostolica Romana detiene il primato dell’organizzazione. Mentre invece ogni moschea è un Islam: ma il primato della mezza luna resta sempre la coesione intorno al più spirituale dei capi, benché morto: Maometto.
La discendenza dal profeta è un galvanizzante fondamentale che fa accettare al credente il sacrificio totale della propria persona per una dimensione più alta di quella terrena.
Tale coesione è sconosciuta all’Occidente, che la ha sostituita con la tecnica.
Un sistema di sviluppo Occidentale è dunque impossibile senza la tecnica.
Ma, visto che la via al misticismo e quella alla tecnica sono incompatibili, dobbiamo forse rinunciare ad un Occidente spirituale?

il sessantotto da uno che nOn c’era [II]

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antigaz - artmobbing @rk22.com
È davvero un progetto ambizioso, quello di Giuseppe Spezzaferro, scrivere una storia del Sessantotto dalla parte di chi c’era davvero per “farci entrare dentro chi non c’era”: segno di una urgenza, che sottolinea quanto sia importante oggi una riflessione sul movimento studentesco lontana dalla retorica telegiornalistica e giovanilistica.
Non solo. L’obiettivo di internettuale è di fornire una testimonianza dalla parte di chi ha vissuto un senso di appartenenza e di chi questo senso di appartenenza se lo è portato dentro, applicandolo integralmente alla vita, senza compromessi.
Senza passaggio alla politica.
Del resto sembra proprio questo il male del Sessantotto, il passaggio alla politica, che corrompe necessariamente l’ideale negando la possibilità “semantica” della rivoluzione.
Ecco la crudeltà del Sessantotto: scoperta dell’informazione mediatica, espansione istantanea delle conoscenze.
Si corre verso lo spazio: cosa è la corsa allo spazio se non una visione radicalmente diversa, globale, dell’umanità? Inizia, nel Sessantotto, l’idea che il mondo sia una pallina da guardare da fuori.
La fotografia ed il filmato: le tecnologie dell’immagine entrano prepotentemente nella vita di tutti i giorni.
Il mondo come scenario da registrare.
Si inaugura la dimensione panoptica del contemporaneo.
Ciò che stupisce è l’apporto originale del “gruppo del Teatro”: un apporto singolare che spinge Giuseppe Spezzaferro a parlare di un Sessantotto come storia di uomini e di idee, avventura di gruppi ben distinti, più che movimento globale.
Ed è questo un approccio ermeneutico in perfetta concordanza con l’altermondialismo del gruppo del teatro: un altermondialismo che non si basava sulla scelta di altri mercati (e quindi di una etichetta biologica in luogo di quella tradizionale) ma sulla contestazione radicale di una barbarie etica. Quella americana.
Percorrendo la storia ideologica del movimento del gruppo del Teatro ci troviamo allora di fronte a posizioni paradossali, almeno da un punto di vista contemporaneo.
Da un lato l’autodeterminazione dei popoli, assunta come principio fondamentale a regolazione della politica internazionale; dall’altro una identità europea forte: un passaggio che il tempo sembra avere contraddetto, se pensiamo come il principio di autodeterminazione sia stato usato, ieri ed oggi, per l’affermazione delle ragioni dei più forti.
Pensiamo a livello locale agli indipendentismi della ricchezza: il nord-est italiano, i Paesi Baschi e la Catalogna in Spagna. O livello internazionale al recente esempio del Kosovo, anche se il Medio Oriente sarebbe a sua volta ricchissimo di esempi di autodeterminazione per così dire “eterodotta”, che del resto, l’Italia ha vissuto nel suo passato napoleonico.
Quale Europa? Qui la posizione di un capitalismo umano è modernissima, così come è moderna l’idea che una Europa delle banche potesse essere un terreno di confronto già in qualche modo politico.
Ma stupisce che queste posizioni venissero proprio da lì. Proprio da quell’estremismo giovanile da cani sciolti, quando oggi ogni radicale si caratterizza da idee del tutto opposte.
Cosa ne ricaviamo? Innanzi tutto che l’idea della contestazione radicale, nuda e cruda, o di una sinistra oltranzista e senza compromessi, è uno strumento del sistema dominante, affermatosi appunto definitivamente con il Sessantotto. Se ammettiamo questo, e cioè che la rivoluzione sia divenuta uno degli strumenti più potenti di merchandising (soprattutto non solo politico), allora possiamo capire da quale Sessantotto il terrorismo provenga.
Ed è quello il Sessantotto che ha vinto.

Leggi su internettuale.net:
Il sessantotto da uno che c’era (parte I)
Il sessantotto da uno che c’era (parte II)

il sessantotto da uno che nOn c’era [I]

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Rispondiamo a internettuale.
Con il ‘68 il processo di omologazione ha avuto una accelerazione esponenziale.
Il ‘68 ha abituato tutti alla moda. Tutti al consumo.
Il ‘68 ha reso più digeribile la disgregazione dell’unità fondamentale delle nostre società, la famiglia; ed ha affermato con maggiore vigore la corrispondenza diretta fra scienza e pragmatismo.
Nuovo Illuminismo?
Il ‘68 ha trasformato i vecchi bisogni in necessità e ne ha creati di nuovi.
Edonismo fa rima con ‘68.
Il punto però è che proprio l’incoscienza che qui si evoca con tanta forza donava a questo edonismo delle insolite qualità.
Il ‘68 ha esplorato un terreno per certi versi vergine e questa virginalità – la scoperta di nuove, inattese possibilità – lo rende una specie di peccato originale del nostro tempo. Ed il peccato originale (in barba ad ogni teologo) è meno grave, perché è primigenio, non conosce la detestabilità della perseveranza.
Primi in tutto i sessantottini.
E questo primato ci suggerisce prospettive virginali, innocenti.
La società era un foglio bianco, bastava impugnare la penna e disegnare.
Il ‘68 è stato muovere i primi passi nel candore della neve appena caduta.
Le orge di woodstock appaiono un esempio puro d’amor libero.
Le droghe chiavi per aprire nuove porte.
Twiggy un essere etereo, mediante una magrezza inedita il corpo diventava trasparente.
L’autostrada l’arteria dentro cui pompare un nuovo modello di sviluppo e comunicazione una nuova forma mentis: la velocità.
Le immagini dei beatles che rimbalzavano da un capo all’altro del mondo creavano una nuova, rassicurante, “prospettiva domestica globale”: si scopriva che ci si poteva sentire a casa anche in Giappone.
Oggi, nell’ordine: perversioni sessuali, tossicodipendenze, anoressia, atteggiamenti compulsivi, manipolazione delle masse.
E proprio sulla onnipresenza dei beatles nei media vale la pena soffermarsi: è da lì che inizia la società contemporanea dello spettacolo (il tanto criticato showbitz). Dovremmo puntare il dito contro questo inizio, analizzarlo criticamente, ma non possiamo non sorridere dell’innocenza dei fab four, del loro sguardo a quel mondo che proprio allora cominciava a diventare piccolo come un mandarno.
La società odierna è frutto del ‘68, è vero.
E l’immagine positiva con cui ricordiamo il ‘68 ha contribuito a renderlo integrale.
Oggi, per paradosso, siamo integralisti di quella contestazione e di quella libertà, tanto che ne siamo diventati schiavi.
Tanto che non comprendiamo più bene cosa fare di questa libertà.
La degenerazione sta forse nell’assenza di questo romanticismo da “prima volta”, nella trasformazione delle menti fin nelle profondità neurali di un linguaggio che ha voluto prendere i segni esteriori di quella rivoluzione senza riuscire a costruire una “ermeneutica della libertà” (o ermeneuitica della rivoluzione?).
Ed è così che quella distesa di neve bianca, calpestata e ricalpestata dopo il primo, mistico, attraversamento è oggi fango e poltiglia.