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customer and border protection [fine]

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Già da 25.000 piedi sopra il livello del mare.
Forse, anzi certamente, già da dentro le carote alla julienne.
Ci penso solo ora. Avrei dovuto condirle con limone per mandare in corto i circuiti.
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Per distruggere le microcelle che ora sono certo già piazzate nelle pieghe e nelle mucose del mio ventre e degli intestini.
Nel mio ventre imbevuto di flunitrazepam.
Mi riaddormento.
E sudo, ancora, sotto il getto del condizionatore.
Sudo.
Sudo e sogno di firmare un contratto con quelli della CBP, che mi guardano arcigni da dietro un metal detector.
Mi squadrano, quelli lì.
E già mi tolgono le scarpe e le tritano in un frullatore ai raggi X.
Non ce la faccio neanche a difendere i calzini che se ne vanno in una polvere sottile radioattiva.
È una polvere che mi infesta i polmoni. E tossendo, così, seminudo ai controlli di polizia sono un pupattolo ridicolo.
Il pisello è piccolissimo, minuscolo.
Un batacchietto tutto striminzito in confronto a quello di Harrison, ormai anche lui lì, non più disposto a mercanteggiare con me.
E quello pelato, il più grosso, quello che gli sta più vicino, recita il sermone.

rightsforamerikaans

« La Customer and Border Protection, ha la responsabilità di impedire l’importazione illecita negli USA di Articoli Proibiti ».
« Gli addetti CBP sono autorizzati ad interrogare ed a perquisire i viaggiatori alla frontiera, garantendo cortesia nel trattamento e rispetto della dignità personale ».
Gli fa eco il più alto, tutto allampanato. Ha l’aria di un sacerdote, tanto si diverte a pontificare sulla bellezza della frontiera.
« Ma è ovvio come il comportamento degli incaricati della CBP dipenda largamente dal fatto che si trasportino o meno sostanze stupefacenti, articoli osceni o sostanze tossiche. O tutte queste cose assieme, ché il mondo ha nella varietà delle abitudini e degli interessi la sua principale bellezza. »
HARRISON, nella sua sconfinata saggezza, annuisce.

Non potrà certo esimersi l’agente della CBP – ed infatti non lo farà – dal deportarvi o farvi deportare nel caso in cui non rispettiate le regole di accesso agli Stati Uniti d’America.
Entrando nel paese il passeggero RINUNCIA AI PROPRI DIRITTI, sottoscrivendo una dichiarazione in cui dichiara di non contestare il divieto di ammissione emanato dagli agenti doganali o dalla Polizia di Frontiera, e di non contrastare qualsivoglia azione di deportazione.

Io firmo. Firmo tutto.
Fatemi entrare.
Sudo ed il sudore è gelato e mi si ghiaccia sullo stomaco.
Sudo nel pile striminzito usaegetta della Delta.

È stato mai arrestato o condannato per atti di depravazione morale?
Intende dedicarsi al commercio di sostanze stupefacenti sul territorio degli Stati Uniti d’America?
(Stupefacenti.
Che generano
stupore momentaneo
artificiale.
Ma, amici miei, vista così, anche il maiale BBQ è stupefacente.
Mi stupisce che un uomo soltanto possa ingurgitare una costa di dinosauro, servita in un litrosano di nera salsa barbecue.)

Oggi o in passato è mai stato coinvolto in attività spionistiche, di sabotaggio, terroristiche o finalizzate a genocidio e stermini di massa?
Ha mai partecipato fra il 1933 ed il 1945 ad attività di persecuzione perpetrate dal partito nazista tedesco e dai suoi alleati?
(no, solo a partire dal 1947)
Ha già tentato di falsificare il visto di ingresso per gli USA?
Ha mai trattenuto o sottratto un minore in affidamento ad un cittadino statunitense?
È qui che mi sveglio.
Sul primo piano di Ilona Staller, in arte Cicciolina, deformato da un grandangolo spinto.
Potrà tornare ancora in America?
Avrà mica qualche amico o fan fra quelli della CBP?

la galleria dei disastri

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inondazione
Che fosse l’estetica stessa della nostra civiltà, l’ha intuito da tempo Virilio.
Nella civiltà postmoderna l’incidente è arte.
Rappresenta la frattura della realtà.
La conseguenza estrema ed irrazionale della velocità.
Lo strappo.
Il pugno.
La visione.
L’interruzione del ciclo autistico della catena di visioni che ci intrappola.

C’è un che di sinistro nelle classifiche che sfilano tutti i giorni sulle pagine della rete.
In particolare in questa del Time, in cui le maggiori catastrofi ambientali sono inventariate come una specie di avanzatissimo prodotto della civiltà odierna.
Una conquista della civiltà neoprimitiva.

ode alla pillola nella festa della mamma (o giù di lì)

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Non c’è migliore occasione della festa della mamma per festeggiare una pillola che impedisce… di esser mamme.
A ricordare l’anniversario un interessante articolo di Nancy Gibbs comparso sul Time – ed uscito nel numero di Internazionale di questa settimana – che ripercorre la storia di quello che è diventato un simbolo della liberazione sessuale e dell’affrancamento della donna dalla “società dei padri”.

A 50 anni dalla sua approvazione da parte della FDA americana, la pillola contraccettiva resta uno dei contributi fondamentali della medicina al controllo delle nascite.
Ed è una storia piena di paradossi, la sua, a partire da un dettaglio sulla sua storia: fu scoperta infatti nell’ambito delle ricerche per la lotta alla sterilità femminile e con il contributo fondamentale d’un cattolico praticante, tale John Rock, la cui idea era quella di sfruttare il periodo di “superfertilità” successivo alla sterilità temporanea indotta dal trattamento al progesterone.
Da allora tanta strada per la pillola, fedele compagna della rivoluzione sessuale targata anni ‘60, ed ancora oggi protagonista di dibattiti, timori, pregiudizi e leggende.
Quello che possiamo dire con certezza oggi (ieri?), 9 maggio del 2010, è che dopo la pillola la consapevolezza nel diventar mamme è aumentata.
E che quindi le mamme di oggi sono in un certo senso mamme potenziate. Mamme per scelta, oltre che per diritto e vocazione. Mamme all’ennesima potenza…
E se in un certo senso il femminismo, e con esso l’affrancamento della donna nelle civiltà occidentali, è stato un fattore di accelerazione dei processi consumistici ed edonistici, la pillola libera per tutte è la possibilità reale e sacrosanta di una scelta etica a monte dell’aborto.
E chissà che cosa penseremo fra qualche decennio della tanto discussa pillola abortiva.

Comunque, per festeggiare la mamma, la donna (e la pillola), vediamo insieme un rapido montaggio da “Vogliamo anche le rose”, bel documentario di Alina Marazzi sulla condizione femminile in Italia, di cui qui abbiamo selezionato uno stralcio sulla “cucina postfemminista” ed uno sulla magica pastiglia dell’amore.
Niente a che vedere col Viagra, anche se oggi si fa sempre più un gran parlare del “pillolo”, ultimo lasciapassare (forse) per una più perfetta parità fra sessi.
Auguri mamme.
Auguri pillole.

il ferro e il cemento di Roma [fine]

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Ma veniamo alla seconda premessa dell’articolo di Pennisi, che si riallaccia alla vecchia convinzione che il trasporto sotterraneo sia l’unica ed universale soluzione per la mobilità urbana.
L’idea, almeno a Roma, rimonta agli anni ’60, e fu alla base d’una manovra speculativa che assieme alla pianificazione delle Olimpiadi (siano esse invernali, estive, natatorie, terrestri o paraplegiche da sempre le Olimpiadi sono occasione in Italia di enormi manovre speculative) attaccò su tutti i fronti la rete tramviaria della Capitale, per realizzare un grandioso progetto di metropolitana che non ebbe mai luogo, dal momento che col tempo ci si rese conto di come nella Capitale l’escavazione fosse complicatissima, richiedendo non sono profondità fino a 30/40 metri, ma anche un continuo zigzag fra ruderi e falde acquifere.
Nel frattempo, però, si era già smantellato.
I 400km di linea di esercizio al 1929, già razionalizzati in 200km negli anni ’30 vennero quasi completamente eliminati in favore del trasporto su gomma.
Il risultato di questa scellerata politica del trasporto metropolitano fu la fine d’una delle reti tramviarie più lunghe ed efficienti d’Europa, che non solo collegava il magistralmente tutte le zone del centro urbano, ma che estendeva i suoi tentacoli anche i castelli romani.
Di quel capillare apparato circolatorio, fatto di depositi e scambi e grandi aree industriali, alla cittadinanza non resta praticamente nulla. Neanche i capannoni che, come è il caso di quello a pochi passi da p.zza Re di Roma – già appartenente alla rete STFER – invece di diventare come si è paventato per anni, la sede del mercato rionale dell’Alberone diventeranno a breve un grande centro commerciale sulla già congestionata via Appia Nuova.
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Oggi Roma ha solo sei linee tramviarie e tanti progetti per la metropolitana, mentre molte capitali europee, compresa la “metropolitanatissima” Parigi, vedono oggi nella rete tramviaria il futuro della mobilità.
Intanto perché tram e filobus sono più economici e rapidi da costruire di quanto non lo siano le linee metropolitane. Inoltre perché la loro costruzione è reversibile ed ha costi di manutenzione più bassi e rischi e variabili di gestione inferiori rispetto ad una rete sotterranea.
Al tram bisognerebbe tornare, cercando contemporaneamente di adottare misure di contenimento drastico del traffico, che non siano solo palliativi per sanare le casse del comune e dei privati (è il caso delle fasce blu introdotte dal sindaco Rutelli o delle ZTL).

Italia 2013 è un blog collettivo il cui intento sarebbe quello di “capire com’è cambiata l’area metropolitana di Roma in questi anni e cosa è successo in questo Paese”.
Fucina di idee ed invenzione in vista delle elezioni politiche a venire, nella gerenza la redazione composita del blog si dice « sorpresa che Mentre negli Usa la crisi abbia implicato un’uscita “a sinistra” (con tutte le differenze del caso), in Italia si viri verso destra. »
Non si aspettava, la redazione, che « a Roma tutto ciò si sia manifestato con grande forza » e con lei – proseguono – anche le « forze politiche e la sinistra italiana» sarebbero stati colti da stupore. « Il voto di Roma e quello nazionale […] sono due passaggi che vogliamo leggere assieme […] allo scopo di fornire i dati che servono per riflettere e ripartire. Perché ci ha colto di sorpresa? Nel caso di Roma perché si erano smarriti gli strumenti per comprendere la città metropolitana e i suoi spazi di vita e lavoro. Nel caso della politica la diagnosi è semplice: una miscela di autismo e sclerosi. »
Le responsabilità non sono astratte.
Autismo e sclerosi, certo.
Ma di una sinistra clientelare che a Roma, in quindici anni ha pesantemente contribuito a rendere la vita reale delle persone un inferno di smog e lamiere, tirato a lucido dall’ultimo concerto di Fiorella Mannoia, Ligabue e Lucio Dalla nelle grandi piazze delle Notti Bianche.
Panem et circenses.

Collegamento al sito di Vittorio Formigari sulla storia della rete tramviaria romana
Puntata di aggiornamento di Report sulla questione dei Re di Roma

il ferro e il cemento di Roma [parte I]

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Un recente articolo su Italia 2013 intitolato “Roma perde il treno” e firmato da Riccardo Pennisi, è simbolico per ricostruire certo ottuso atteggiamento della sinistra moderata italiana, convinta (Italia 2010) con ostinazione di star sempre dalla parte della ragione.
La tesi, esposta per punti elenco (mi sembra sia la cifra distintiva del blog), sarebbe che la famosa “Cura del Ferro”, annunciata da Walter Veltroni, stia subendo una drammatica battuta d’arresto sotto la giunta Alemanno.
Da quanto si evince dall’articolo di Pennisi sembrerebbe che il piano regolatore del 2008 – è bene ricordarlo, approvato dalla giunta Veltroni a porte chiuse – sia il meglio che Roma potesse meritare in termini di mobilità e razionalizzazione dello spazio urbano.
Naturalmente non è così, giacché il piano regolatore del 2008 e più in generale la gestione quindicennale della capitale da parte del centrosinistra, sono stati un veleno per una vita cittadina tutta riassumibile nella formula del “panem et circenses”.
Grandi eventi per le strade (strumenti anch’essi, peraltro, di spartizione delle prebende) e dietro le quinte la divisione dei pani e dei pesci, delle cariche, dei privilegi e del denaro.
Sotto la giunta Veltroni ha preso forma il progetto delle centralità per quello che s’è dimostrato essere nella realtà. Sulla carta idea necessaria, in quanto prevedeva la ridistribuzione del carico urbanistico amministrativo su più aree della periferia cittadina, creando centri autonomi di vivibilità.
Ma a colpi di varianti ed accordi di programma la verità è che in queste centralità s’è costruito troppo e senza regole, cosicché il calcestruzzo oltre che molto spesso orribile a vedersi è andato a gravare sul traffico dalla periferia al centro. Le centralità sono sorte riempiendo aree spesso vincolate ed i centri amministrativi ed i servizi sono rimasti dove stavano prima.
Secondo le stime, il piano approvato nel 2008 – proprio il giorno prima della candidatura di Veltroni alla segreteria nazionale del partito che oggi « merita rispetto » – prevede ben 70 milioni di metri cubi di edilizia residenziale in più in dieci anni.
Un carico insostenibile per la città, che proprio sotto le giunte di centrosinistra ha adottato la politica del laisser faire, che nella pratica si è tradotta in centri commerciali, palazzine e fiere; a dire, nella delega diretta della pianificazione urbanistica ai privati, e cioè ai vari Toti, Caltagirone, Cerroni, Bonifaci, Scarpellini, Ligresti, Parnasi, mediante l’applicazione di strumenti normativi straordinari riconvertiti ad uso ordinario, come l’accordo di programma.
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È il caso dell’area della Bufalotta dove i fratelli Toti e Gaetano Caltagirone hanno realizzato un intero quartiere privo di servizi, che oggi pesa come un macigno sulla mobilità della via Salaria e Nomentana. Le cifre sono spaventose: 2.750.000 metri cubi di case, 5.000 in più rispetto a quelle inizialmente previste.
Oppure è il caso del centro commerciale Roma Est, per il quale è stato costruito un intero svincolo autostradale quando gli abitanti delle zone limitrofe, del comune di Guidonia Montecelio e di Lunghezza attendevano da vent’anni (ed in realtà ancora attendono) una soluzione alla difficile mobilità dell’area Tiburtina.
E poi la nuova Fiera di Roma. 300 ettari per 3milioni di metri cubi alle porte di Roma, messa al posto di un’area prima destinata agli hub commerciali di un autoporto, il cui scopo era quello di impedire ai mezzi pesanti l’ingresso all’interno della cintura del GRA.
Basta leggere uno stralcio dell’intervista rilasciata nel 2008 a Paolo Mondani di Report, dal prof. Paolo Berdini, Docente di Urbanistica dell’università di Tor Vergata, per capire come e a vantaggio di chi sia cambiata la destinazione d’uso dell’area che si trova a fianco della Roma-Civitavecchia: « in questa zona […] arrivavano i tir e poi cambiavano le merci con i piccoli vettori verso la città di Roma. Da allora il destino dell’area è diventato travolgente; […] a cavallo delle due giunte, di Francesco Rutelli e di Walter Veltroni, attraverso accordi di programma, il gruppo Lamaro » ottiene dal comune « di fare qui la Fiera di Roma […] con una plusvalenza che lascio immaginare.»

In questo meccanismo perverso e criminale la metropolitana è stata una specie di moneta di scambio fra comune e palazzinari, come vengono chiamati a Roma, per cui ad esempio i costruttori della Bufalotta per un milione di metri cubi di residenziale in più offrono al comune di Roma 80 milioni di euro per la nuova metropolitana B1, che però si stima costerà alla collettività 600milioni di euro. Oppure Lamaro Appalti, che per la LUISS di viale Romania stanzia 8milioni di euro al Comune di Roma per non aver garantito gli standard di verde e servizi previsti per legge, incassando profitti forse dieci volte più alti.
E c’è il caso della centralità dell’Anagnina/Romanina: dai 750mila metri cubi previsti nel 2003, si è arrivati a colpi di condoni ed accordi col comune ad oltre 1milione, fino alla proposta finale del costruttore Scarpellini che con 50milioni di contributo alla costruzione della metropolitana, chiede di mettere su altri 670mila metri cubi di cemento in quella zona.
Leggiamo le conclusioni di Paolo Mondani: a « Scarpellini costruire a Romanina frutterà 420 milioni di euro di guadagno netto. Se il Comune gli consentirà di realizzare 670 mila metri cubi in più il netto salirà di altri 250 milioni. In cambio di questa fortuna Scarpellini promette solo 50 milioni di euro al Comune per realizzare il prolungamento della metropolitana da Anagnina a Romanina che costerà, dicono in tecnici, 350milioni e che se realizzata farà lievitare ancora il valore dell’area».
Eccola la “Cura del Ferro”.
Per mantenere lo squallido e demagogico parallelo medico Veltroniano è come se Roma fosse un grande corpo malato, le cui cure necessarie non vengano prescritte da un medico, ma da un informatore scientifico nell’interesse della ditta farmacologica che egli rappresenta.
I tracciati delle metropolitane vengono pianificati dai costruttori, i quali con un piccolo contributo realizzano plusavalenze da capogiro. Doppie addirittura, perché da una parte il valore dei nuovi immobili aumenta e dall’altra per via delle concessioni a cascata e degli aumenti dei volumi residenziali, viene lasciato poco o nessuno spazio all’edilizia senza profitti, quella civile.

Collegamento all’istruttivo servizio di report

i libri? non ve ne libererete mai!

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« Non sperate di liberarvi dei libri ». Suona come una minaccia ma è il titolo un po’ pulp scelto da Jean-Philippe de Tonnac per la conversazione da lui condotta con Umberto Eco e Jean-Claude Carrière, dedicata all’invincibile attualità del libro.
È una conversazione sul senso del libro nelle nuove e venture Galassie Gutenberg dei linguaggi digitali.
A cosa serve il libro oggi?
Continuerà esso a mantenere la sua forma?
Oppure si troverà irrimediabilmente modificato dall’avvento degli e-book e delle nuove tecnologie informatiche?
Eco e Carrière non hanno dubbi in proposito: « il libro è come il cucchiaio, il martello, la ruota, le forbici. Una volta che li hai inventati non puoi fare di meglio ».
È tutto qui il senso di questa gaia scienza, leggera, appunto, ma anche parca di spunti di riflessione davvero innovativi, al di là del motto appena esposto e d’altronde scritto anche in quarta di copertina.
Gli spunti ci sono, ma si resta sempre sulla superficie delle cose, e si ha come l’impressione che le fonti originali delle riflessioni siano come occultate: dall’elogio della stupidità da cui ci si aspetterebbe una patafisica citazione di Alfred Jarry, alle biblioteche immaginarie o possibili, che stranamente non richiamano neanche per un istante le “notti di inverno” partorite dalla mente di Italo Calvino.
“Niente fermerà la vanità”: riprendiamo il titolo di uno dei capitoli del libro per dire che le due personalità di Eco e Carrière sono talvolta così ingombranti da non lasciare più spazio al vero centro della conversazione, in un esercizio di retorica che ha appunto troppo della vanitosa eloquenza.
Così, per esempio, dell’influenza del supporto sulla percezione del contenuto – non solo nel presente delle letture a schermo, ma anche nel passaggio dal manoscritto alla stampa, o dal rotolo al volumen – apprendiamo poco, mentre sappiamo di più delle collezioni personali di Eco e Carrière.
Da due bibliofili di lungo corso ci si aspetterebbe qualcosa di più profondo. Ma certo, la lettura ha qui il pregio di scorrer rapida e piacevole, fra aneddoti personali e le rilassate pose dei grandi collezionisti.

un’ora sola ti vorrei

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Diario, memoria personale, sogno.
“Un’ora sola ti vorrei” di Alina Marazzi è un montaggio di pellicole 16mm e registrazioni audio che prima suo nonno e poi i suoi genitori, realizzarono a partire dai primi del ‘900 fino agli anni ’70.
È una memoria familiare profonda e delicata, che non ha nulla dell’epopea, perché si realizza nell’intimità dolce e malinconica di un rapporto mancato, quello con la madre, suicida a trent’anni dopo una radiosa felicità offuscata dai fumi della depressione e da un lungo calvario di cliniche, psicofarmaci e trattamenti psichiatrici.
Le immagini affiorano nel flusso sbiadito della memoria.
Leitmotiv del montaggio, il volto della madre, Liseli Hoepli Marazzi, la sua triste, algida profondità a presagio della fine violenta.
Le immagini scorrono e si ripetono in lunghe moviola fra videoarte e documentario.
La giovinezza spensierata e le lettere affettuose.
Un viaggio a capo nord.
E poi l’amore, le partenze. I saluti sulla banchina ferroviaria. Un soggiorno in America. Fino alla maternità e ad una sensazione di inadeguatezza ed indecisione che monta, monta, monta, come un insetto nella mente, di cui prende via via dominio e controllo.
Tre generazioni in scene d’interno familiare.
Un mondo così vicino eppure antico e che a tratti sembra più lieve di quello odierno, pur nella tragedia sempre sottesa, già scritta dalle prime immagini, dalle passeggiate dei bisnonni.
Memorie intime d’una intellighenzia italiana – Liseli era figlia di Carlo Hoepli, editore milanese protagonista d’una stagione culturale italiana – dietro la cui immagine di successo cova la depressione e la nevrosi, mal sottile inspiegabile ed improvviso, mal borghese, appunto, figlio paradossale del benessere e della spensieratezza.
Risuonano i temi nel Novecento in questo documentario sincero e personalissimo: vi risuona la depressione di Zeno Cosini, la malattia borghese e l’incomprensibilità di un male nuovo perché inatteso e più forte dell’amore.
La voce fuori campo impasta la memoria visiva con quella scritta; recita le frasi semplici, felici e disperate di Liseli, prese dalle corrispondenze e dai diari che l’accompagnano per tutta la vita, dalla serenità milanese alla disperazione delle cliniche svizzere, dal rapporto difficile con un padre pratico ed autoritario all’amore smodato per un uomo dolce e comprensivo.
Mondo antico, diverso dalle odierne velocità.
Un mondo di lettere e di pensieri e di altalene sospese su moli estivi.
Un mondo di cui Alina vorrebbe un’ora appena in più.