archivio per gennaio, 2007

Fratellis a Montmartre

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Negli spazi semifatiscenti e retro dell'Elisée Montmartre si è esibito il 3o gennaio The fratellis, il gruppo inglese montanto all'auge delle cronache musicali con "Costello Music", album che ha la forza di una raffica di mitra sulla folla. Ma iniziamo da Nelson, il gruppo francese (anglophone, hein?) cui è spettato l'arduo compito di scaldare il palco. Certo, le atmosfere nere alla Joy Division non erano proprio l'abbinamento ideale con the Fratellis, specie per la folla di teenagers scatenati che affollava lo stanzone fumoso del locale di Bulevard di Rochechouart ma tant'é… e siamo pur sempre nello scatolone indie. E certo l'energia non è mancata a questi quattro giovanotti in mise Franz Ferdinand, che hanno suonato con passione fino ad ottenere dal pubblico ovazioni degne delle star della serata: e non è un caso che "Nelson", in barba all'anglofobia francese, sia uno dei gruppi più rappresentativi della nuova ondata rock parigina. Genere che non ha paura di scimmiottare lo stile d'oltremanica e lo fa con discreti risultati quando parliamo delle formazioni Stuck in the Sound, Hopper e Tahity Boy And The Palmtree Family. Con i dovuti momenti di sonnolenza elettronica, la prestazione live di Nelson non ha lasciato spazio a dubbi: "People and Thieves" e "Slow Falling" sono due cadute fin troppo lente, "I say you can't stop" e "The over song" divertono e fanno ballare con sound in bilico fra Inghilterra e Stati Uniti. Ma niente paura: per il momento tutto è statao davvero già ascoltato. E' con The Fratellis che la serata all'Elysée si è scaldata di più. Una vera fucilata il sound live di questi tre ragazzi con la faccia da avanzi di galera. Rock adrenalinico ed elementare, che con gli ingredienti base (bassochitarrabatteria come un'unica parola) produce una macchina ritmica formidabile. Potenza sonora da sparare a centinaia di decibel e che sembra provenire dalla furia omicida di dodici braccia. Motore ritmico infaticabile ed indubbiamente star della serata "Mince Fratelli", alla batteria come al mitra, senza pietà per la platea esagitata, alla quale non è servita neanche la parentesi acustica di "Jon Fratelli". E questi scalmanati avevano ragione ad ammazzarsi di pogo e botte: tutto potente, tutto raddoppiato, tutto troppo rapido. "Henrietta" e "Flathead" come una tortura per lo stomaco e per i timpani. "Country boys e city girl" pericolasa per i talloni e per le spalle. "Baby fratelli" erotica e sconcertante come un cazzotto in pieno volto. La breve durata ed il ritardo sul palco certamente due macchie nere alla serata. Per un disco solo e per questi ritmi da frullatori cosa potevamo aspettarci?

Nelson si raggiunge su myspace: http://www.myspace.com/nelsonrock
Foto e commenti del concerto: http://www.le-hiboo.com/concerts/the-fratellis-nelson-a-lelysee-montmartre/  

il pollo e la vocale

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pollo e la vocale

La famiglia Koutchi se ne stava tutta impegnata a scegliere un pollo arrosto sulla rue Fauxbourg du Temple. Il giovane Mohammed e il Piccolo ed il Nonno Rashid, il più tradizionalista, che aveva imposto la viande Halal nel rispetto dell’igiene e del Profeta. Eccoli riuniti attorno al grande girarrosto. Questo è troppo piccolo. Questo è troppo bruciato. Quest’altro ha l’aria d’essere vecchio. Il Piccolo indica infine un pollo con una insolita forma di A.
«Non ci sono vocali nell’arabo», sentenziò il vecchio.
Ed il pollo volò via. Come un racconto di cento parole, spinto dalla forza di almeno quarantotto A.

inverno invisibile [ultimo]

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Ed ecco allora la stonata camminata per la rue st. Denis. Passando nel falso gelo del falso inverno della grande piazza. E del grande boulevard.
Un passaggio distratto sotto l'arco. Un pensiero lontano alla confraternita della Passione.
E alla passione e alla stretta del vuoto che attanaglia la gente.che vi ruota. A proseguire il passaggio stretto della mercanzia. L'esercizio del commercio si rinnova.
Le officine della periferia artigiana hanno lasciato spazio a questi pezzi di vetro di bottiglia. Il verde acido della birra scoppiata. Il nerogrigio delle mani poggiate sugli spigoli.
Kebab e cineserie.
Kebab e alimentation generale.
Kebab e scoppiati da ogni luogo. Riuniti nel triste rave della notte dei sans abri. Senza ripari né rifugi. Se non nel giallo delle dita macchiate dal pavé e dalla nicotina.
Dita che alzano il punto rosso di una cicatrice di tabacco. E che lanciano un segno inutile in direzione del…
in direzione del niente e del vuoto ancora.
Fahrenheit 71.00.
Rotondo.
Come rotondo è il suo passo uscito dalla copertina di un disco.
What's the story… morning glory.
Gloria del mattino incipiente che si spacca letteralmente nella notte. O che apre ad un chiarore sovraumano, quando i ventri obesi e le mani sudati dei mercanti sudano già alle prese con cassette e tavole.
Le luci accese a combattere una notte già vinta dal sole.
La profumeria Baldini.
Il sogno di gloria reale crollato assieme al pont au Change. E forse Grenouille è passato di qui.
Qui, le spalle alla città. Già fuori dall'arco. Già in una campagna manifatturiera di passaggi e mercanzie e carretti.
La pelle dura e preistorica dei litchis in un sacco trasparente.
Le mani sui fianchi in attesa attonita e stupida.
Occhio vitreo di notte.
La scorza che freme sotto le dita fino al punto di rottura. La pressione che taglia in una crepa oblunga la corteccia rugosa.
Uno schizzo di succo trasparente e freddo.
Lo zucchero nell'incavo della mano a congelare nel delizioso disturbo della tensione superficiale.
Acqua distillata nell'officina chimica di un ramo.
Fahrenheit 67.30. Fino a quando l'aria non rada a zero il picco anomalo di calore.
Il centro caldo del suo universo tiepido. Fino a disperderlo nel vuoto dell'infinito.
Acqua addizionata di un composto in grado di esplodere nel cervello in un fiotto di fresco. Turgido. Umido. Come la carcassa priva del seme, che scivola a mezzo centrimento dal sangue rovente della giugulare.
Odore e sapore come tempesta chimica.
— ralenty
Fahrenheit 66.12
Una rotazione del capo, ancora.
Fahrenheit 65.90
Una rotazione ebete del busto, di nuovo.
Fahrenheit 65.40
Verso il punto zero. Verso la media matematica del moto di tutti i punti in un volume dato.
Volume dato.
La temperatura scende soggetta anch'essa al mistero di una forza gravitazionale. Gravitazione e temperatura.
Punto zero. Ralenty.
"Il profeta non era uno stolto"
"Prego?"
– 64.90°F -
"Il profeta. Non uno stolto qualsiasi"
"Mai dato dello stolto al profeta"
"Sei cristiano?"
– 64.80°F -
"Non direi"
"Ma tua madre, o tua nonna. Loro erano cristiane?"
"…"
"Anche il tuo profeta portava la barba. E non era uno stolto."
"…"
– 64.73°F -
"Essa ha sette virtù."
– 64.68°F -
"Conosci la prima virtù della barba?"
"…"
– 64.50°F -
"Conserva i denti."
"…"
"Secondo: produce un potere nel tuo sguardo"
"…"
"Terzo: la forza del tuo sesso risiede in essa"
"…"
"…"
"E le altre 4?"
"Per quello c'è internet, no?"
– 64.40°F -
Nel momento esatto in cui il moto di ciascun punto è il medesimo. L'istante in cui il dentro ed il fuori corrispondono.
L'istante in cui è avanzato l'ennesimo infinitesimale passo all'arresto.
Istante di arresto.
Pausa, temporanea e relativa.
Blocco.
In quello stesso istante l'uomo si trasforma in un sacco nero con scarpe e cappello.
Sembrerebbe un ammasso di vestiti.
«ed ella disse: "Quando per udir se' dolente,
Vestiti freddi. Estivi.
«alza la barba»
Un odore sbiadito. Un odore sbagliato per la rue di St. Denis che rimane sempre buia. E che non si accorge del passaggio di un vento tiepido.
«e prenderai più doglia riguardando».
E' caldo oggi.
Saremo almeno a 64.40°. Fahrenheit, naturalmente. Calcolati con vero sangue di cavallo americano.
E poi che domande. Fossero stati celsisus saremmo lessi. La corteccia di questi litchis sarebbe rovente.
Marcirebbero gli occhi neri nelle orbite della polpa zuccherina.
Oppure avremmo aperto il sacco. Svuotato il contenuto in terra.
Deciso di camminare in direzione della Senna.
In t-shirt. O maniche di camicia.
E magari avremmo pensato che in estate, la barba, proprio non va.
Ma quello era soltanto un inverno invisibile.

inverno invisibile [parte III]

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Allo Zorba sarebbe impossibile tracciare anche lontanamente la rotta di una sola delle particelle nell'aria. Perché allo Zorba enormi transessuali muovono in vortici eleganti il gas sulle loro teste a due metri dal pavimento. Allo Zorba il fumo si propaga neroviolagiallo verso l'alto e si poggia morbido e strisciante sul soffitto, in una gravità lunare inversa.
Allo Zorba il fiato e le braccia e i piedi e le mani e gli occhi non hanno il tempo di pensare all'aria. Ed anzi: sono tutti così numerosi ed incollati in questa sottile nebbia che la densità dell'atmosfera è come mummificata benché attraversata di continuo dalle frequenze della musica e delle voci e delle grida e delle conversazioni da ubriachi.
La folla non si muove né brulica. La folla si rimescola.
Si nuota in un enorme budino, allo Zorba. Non c'è niente da fare.
Ed il budino trema rapido alla base, sollecitato dalle spinte del concerto nello scantinato.
— E' quasi un miracolo che l'osso di seppia rimanga ancora ben ancorato alla barba
Se non si nuota nel budino c'è sempre la seconda alternativa: strisciare fra i piedi della folla ed uscire a dare boccate pesanti di vapore sulla discesa del falso borgo. Sembrerebbe una cosa da folli in gennaio.
Ma il tepore totale e cosmico si riversa già sulle vite di tutti. E sembra che in questo inverno qualcuno abbia scoperchiato tutti i vulcani del mondo. Che qualcuno abbia mischiato i mari tropicali a quelli polari e che le nuvole ed i venti gelidi siano un tutt'uno con lo scirocco rovente di Algeri. Tutti i forni del mondo sono aperti.
E non c'è scampo. 59 Fahrenheit secchi ovunque in Europa.
Tiepido inverno.
Tiepido.
Tiepido.
La birra cola sulle mani nelle gole nelle teste.
—- Ralenty
Lo sguardo di lui lo incrocia. Pelle olivastra. Cellulare in mano. Giacca scura. Occhi gialli giallo fuoco.
"La tua barba è bella."
Fahrenheit 73.41.
"Dovresti tenerla"
D o v r e s t i t e n e r l a
ed è come un passaggio lontano. Appirizione e sparizione immediata. Come una profezia.
Fahrenheit 72.20.
Le molecole si mettono comode. E la rotazione del capo non serve a spingerle in alto.
Non serve ad intervenire nel caos calmo della stanza deserta.

inverno invisibile [parte II]

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Click.
La luce si spegne.
Click.
Nella stanza buia la termodinamica fa il suo dovere. Il cosmo rallenta e perde via via l'inerzia che gli aveva impresso il calore accecante delle lampade.
Click.
E l'attrito fra molecole propaga il calore. Dal punto più caldo a quello più freddo. La riduzione progressiva del movimento. La tendenza cosmica a raggiungere il tiepido. Non punti di luce. Non punti di calore. Nemmeno l'esaltazione folle e romantica di qualcosa diversa da tutte le altre.
La materia si arresta. Lentamente.
Click.
110.12 Fahrenheit negli interstizi del calorifero.
Il big bang perde la sua spinta.
483.96 Fahrenheit sulla superficie specchiata della lampada alogena.
La galassia di Andromeda si stanca molto più di quanto non possiate immaginare.
97.89 Fahrenheit a forma di fagioli uno di fronte all'altro, sulla sedia.
Il cuore magnetico della terra cammina. Venti kilometri al secondo.
Siamo
Seduti
Su una enorme
Dinamo
In arresto ritardato.
Lentamente il calore viaggia di particella in particella alla ricerca della sua media matematica.

Click.

inverno invisibile [parte I]

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inverno invisibile

In quel momento un grappolo di molecole rallentava il suo moto oscillatorio casuale.
Anzi accelerava.
Anzi si innalzava in colonna verso l'alto.
Anzi. Pioveva come una tepesta solare fra le maglie di ghisa del radiatore ad olio e ne veniva immediatamente sparata via. Lontano come la palla di Joe di Maggio. Secca come la morte contro lo spigolo acuminato di una scaglia di pelle piantata nella crepa invisibile della carta da parati.
Un grumo di grasso sfrigolava felice e lontano da ogni orecchio umano, appena poggiato su di un grano ferroso acceso dal tungsteno rovente.
Sfere. Sfere. Sfere.
La complessità della polvere. Grani in sospensione.
La stanza era un brulicare di infinito.
Gangli al cui interno si disperdevano (o raccoglievano) universi interi.
Mondi di polvere. Corpuscoli in sospensione appena al di sopra del divano, pioviuti da qualche parte. Forse scampati al magnetismo della torre o al calcio sparato di colpo contro la palla, giù, nel parco di Belleville. Forse piovuti dritti dalla scia di un aeroplano.
Resti di cibo ed acari perduti nel nulla degli asteoridi, a cavalcare le onde imprevedibili dell'azoto festoso ed eccitato da tanti fotoni.
Appena sulla sua testa in quel momento una molecola di Sputnik rispedita al mittente dall'abisso cosmico. Acciaio temprato. Si sarebbe piantata come un coltello proprio nell'interstizio misterioso fra la pelle del dito indice e la madre dell'unghia. Laddove le scaglie di cellule morte si accumulano, senza spazzini che vengano e cercarle. Si sarebbe scagliata in quel punto e vi sarebbe rimasta per chissà quanto altro tempo ancora se solo non l'avesse confusa con il filo di monossido che si allungava grigio fra le sue dita. Una miscela tossica di anidride carbonica, zolfo e carbonio. Una nube non meno densa di quel nembo di vapor acqueo cui lei, la microscopica particella metallica, aveva miracolosamente scampato prima di essere proiettata nel nulla assoluto, nell'assenza rilassante dell'attrito.
Impigliate nella barba, fra la folta folla di batteri intenta alla manducazione del sebo ed i giganteschi sidecar che percorrevano in lungo ed in largo il suo corpo: il fiocco di un fiocco d'avena provieniente dall'illinois (o meglio, lavorato nell'illinois a partire dall'avena del massachussets), il resto mai rimosso di un globulo rosso, (si sarebbe quasi detto della banale emoglobina ossidata, anche se tutta la colonia dell'impronta digitale dell'indice destro, che periodicamente si accostava ad accarezzare i peli del mento era concorde sul fatto che si trattasse della monolitica volontà divina) ostinatamente incastrato esattamente fra le crepe periferiche del milionesimo poro a partire dalla piega destra della bocca, della grafite in scaglie di colore nero, una quantità infinita ed inquietante di micropolveri fra le quali troneggiava la punta acuminata dell'asbesto piovuto dalle pastiglie del freno di un pullman turistico targato ΠK 0354.
Ed ancora plastiche (dio, quante plastiche), frammenti di vetro, un cristallo svarowski quasi integro, la scaglia di pelle di un clochard, i resti dell'olio greco mescolato a quello italiano pagato a peso d'oro all'Unik, una parte infinitesimale dei materiali di risulta dello scantinato appena aperto a venti kilometri da lì, a Villejuif… anche se indubbiamente il resto più interessante di tutti era il frammento preziosissimo dell'osso di seppia raccolto nella lontana estate del 1985 sulle spiagge della Jugoslavia e che così a lungo era rimasto nel cassetto della sua camera di Roma, fino a quando la madre non decise di sostituire ai ricordi della sua infanzia una beautyfarm automatica di ultima generazione. E tutto finì nella spazzatura.
Se solo avesse saputo che quel microframmento del suo passato era lì. Ma soprattutto se avesse saputo le peripezie che ce lo avevano guidato: una volta e mezza il giro del mondo. Una impresa eroica fin dalla fuga picaresca dalla ciminiera dell'inceneritore all'Albuccione, la corsa a bordo della morbida gonna della tedesca in direzione di Pulau Penida (lei, la tedesca, non ci sarebe più tornata, delusa dalla vacanza mentre il destino volle che la seppia restasse lì quasi dieci anni), il tocco leggero dei piedi dei danzatori, disperso ormai fra i milioni di grani silicicicicicicicicicicicicicicicicicicici della sabbia. Fino a quando l'infradito gentile di una giapponese non decise di raccoglierlo e depositarlo al check-in dell'aeroporto di Bali. La corsa sul nastro. La folle amicizia con i frammenti di pesce secco incontrati per caso sulla borsa di kaimano dell'americano diretto a Francoforte. Il passaggio da una valigia all'altra, i lunghi voli nell'atmosfera fredda e stantia della stiva di due boeing nuovi di zecca… ed infine la planata libera sull'avenue Simon Bolivar diritto proprio nella sua barba.
Se solo avesse saputo.
Se solo avesse saputo quanto la sua idea di ordine contrastasse col caos calmo della sua barba.
Se solo avesse saputo quanti e quali equilibri avrebbe polverizzato il passaggio del rasoio affilato sulla pelle.
Qualcosa di simile ad una apocalisse, ma in forma di mentolo.
"Apocalisse mentolosa", l'avrebbe chiamata il pelo sfuggito all'altezza del pomo d'adamo.
Intanto, appena sopra la lampada accesa, una colonna di navi spaziali migrava verso l'alto. Nuvole rosa. Un bigbang di colore e riflessi.

jusqu’à l’ocean

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ocean

Come pasta di mandorle
La pollution
Mi ha riempito il cuore
e lo stomaco
Sarà l'ozono che intossica i miei giorni
O che non ho pile voltaiche
con me
Per ascoltare Thomas Fersen
Per ridere di Partre.
Non posso leggere che Leroy
E la sua fine del mondo.
Per dimenticare Jacques Brel
O non capire Gainsbourg
Ti basta
lasciare le tue stilo doppio AA marca Sony
Chez toi.
Per dimenticare Parigi
le sue strofe di métro
– cemento sotterraneo e fischi acuti -
Non basta seppellirsi
O gettarsi nella Senna,
Infezione oblunga
Jusqu'à l'ocean.