La tempesta secondo Latella

scritto venerdì 13 ottobre 2006 alle 02:09

la tempesta di Antonio Latella

Roma – Un tirassegno al centro, aride sponde tutt’intorno. E Prospero compie l’incanto, fra attrazioni russe ed un sorprendente anelito al fantastico. Sorprendente perché il regista di questa “Tempesta”, vero testamento di Shakespeare, è Antonio Latella, il recente fenomeno della ricerca contemporanea, che punta tutto sulla crudeltà, sul nudo, il corpo. Motivi estetici che qui entrano “dalla finestra”, al servizio di una scena che accende il fuoco fantastico di un testo singolare, unione di “piece bien faite”, dramma e fantasticheria magica.
La storia di Prospero, duca di Milano, esiliato dal fratello in un isola del quale è diventato tiranno incontrastato, ladro di una terra che apparteneva al mostruoso Calibano, procede per momenti di alta poesia, shock improvvisi e balletti meccanici. Teatro delle attrazioni, appunto, che assegna alla grande Anna Maria Guarnieri il ruolo del duca, un creativo, in grado di generare incanti e spiriti.
E allora il corpo è esibito fra gli stracci di un naufragio del Settecento, solo nella misura in cui gli spiriti magici di Ariele e Calibano diventano il parto amoroso e crudele di un duca senza ducato, all’incrocio fra realpolitik ed esoterismo. Ed è per questo che Prospero è donna, partoriente col ventre l’ignobile Calibano e con la mente l’etereo Ariele. Un ombelico segnala il concepimento del primo e la fuoriuscita da un orso infantile la nascita del secondo.
Ed infantile è la stanza degli incanti che ospita le vicende; gli attori vi sono plasmati a giocattoli parlanti, diretti da Prospero e dal suo libro magico. Sembra di stare nel mondo inferico dell’Alice di Carrolliana memoria, e l’attrazione russa serve a questo: a trasformare Miranda in un carrillon, Stefano in un soldatino di Piombo, Ferdinando e Trinculo in due automi a manovella. E la rampa è per l’appunto un tirassegno, geniale antenna che cattura le radiazioni più disparate conservate nel testo e le restituisce amplificate, moltiplicando le distanze, ruotando, immolando i personaggio al movimento, e dando ordine e concretezza all’altrimenti eclettico e dispersivo mondo mentale di Prospero.
Latella scarta a buon diritto la lettura politica del testo del Bardo e scommette sull’abilità dei suoi interpreti, sulla visionarità e l’effetto complessivo della scena, a regalare immagini illusorie e cangianti, strappate di colpo da improvvise violenze visive, come la spaventosa pioggia di mortali frecce dal cielo, o l’illusione “centaurica” che trasforma lo spirito Ariele in cavallo. E allora si preferisce riflettere sul linguaggio, riportare alla mente suggestioni cinematografiche e compiere una carrellata mai citazionistica sugli spunti registici più importanti del Novecento. Al centro, l’idea heideggeriana che il linguaggio non solo è mediatore del senso, ma anche produttore di significato autonomo. “I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo”, è forse necessario scomodare Wittgstein per scoprire che l’esistenza – e soprattutto l’esistenza di un personaggio teatrale – è inesorabilmente determinata dal linguaggio. Calibano viene alla luce nella sua seconda vita quando impara a parlare; la parola è artefice del potere magico di Prospero ed infine la parola inutile, automatica, di Ferdinando e Trinculo ne segnala la ridicola impotenza.
Il vero Prospero è Latella; il risultato, un motore scenico attivato dalla scommessa coraggiosa di Anna Maria Guarnieri, degnamente circondata dagli altri, e dallo spirito incontrastato di un artifex improbus. La scena.

visto al Teatro Eliseo – novembre 2003

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