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i libri? non ve ne libererete mai!

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« Non sperate di liberarvi dei libri ». Suona come una minaccia ma è il titolo un po’ pulp scelto da Jean-Philippe de Tonnac per la conversazione da lui condotta con Umberto Eco e Jean-Claude Carrière, dedicata all’invincibile attualità del libro.
È una conversazione sul senso del libro nelle nuove e venture Galassie Gutenberg dei linguaggi digitali.
A cosa serve il libro oggi?
Continuerà esso a mantenere la sua forma?
Oppure si troverà irrimediabilmente modificato dall’avvento degli e-book e delle nuove tecnologie informatiche?
Eco e Carrière non hanno dubbi in proposito: « il libro è come il cucchiaio, il martello, la ruota, le forbici. Una volta che li hai inventati non puoi fare di meglio ».
È tutto qui il senso di questa gaia scienza, leggera, appunto, ma anche parca di spunti di riflessione davvero innovativi, al di là del motto appena esposto e d’altronde scritto anche in quarta di copertina.
Gli spunti ci sono, ma si resta sempre sulla superficie delle cose, e si ha come l’impressione che le fonti originali delle riflessioni siano come occultate: dall’elogio della stupidità da cui ci si aspetterebbe una patafisica citazione di Alfred Jarry, alle biblioteche immaginarie o possibili, che stranamente non richiamano neanche per un istante le “notti di inverno” partorite dalla mente di Italo Calvino.
“Niente fermerà la vanità”: riprendiamo il titolo di uno dei capitoli del libro per dire che le due personalità di Eco e Carrière sono talvolta così ingombranti da non lasciare più spazio al vero centro della conversazione, in un esercizio di retorica che ha appunto troppo della vanitosa eloquenza.
Così, per esempio, dell’influenza del supporto sulla percezione del contenuto – non solo nel presente delle letture a schermo, ma anche nel passaggio dal manoscritto alla stampa, o dal rotolo al volumen – apprendiamo poco, mentre sappiamo di più delle collezioni personali di Eco e Carrière.
Da due bibliofili di lungo corso ci si aspetterebbe qualcosa di più profondo. Ma certo, la lettura ha qui il pregio di scorrer rapida e piacevole, fra aneddoti personali e le rilassate pose dei grandi collezionisti.

molleindustria: alienazione

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evrydaythesamedream

evrydaythesamedream


Molleindustria è una vecchia conoscenza internettiana. Mi aveva particolarmente divertito con il gioco di strategia in flash d’allure “no-global”, tutto dedicato al mcDonald’s, in cui lo scopo era far profitti, ed i mezzi per raggiungerli un mix di marketing demagogico e deforestazione.
Archiviati nel mio cerebro, riescono qualche giorno fa nella posta con questa interazione (alienazione) flash.
http://www.molleindustria.org/everydaythesamedream/everydaythesamedream.html
Ogni giorno gli stessi sogni fanno sognare una vita sempre identica.
Vale la pena perdersi nel loop ipnotico per qualche minuto, senza spaventarsi della ripetizione.
Azzerando il cervello si scopre che un attimo, nell’identica modulazione dei secondi, può facilmente diventare una vita.

Calder al Palazzo delle Esposizioni. Il moto del cosmo.

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Ugo Mulas. Alexander Calder con Snow Flurry, Saché 1963

Ugo Mulas. Alexander Calder con Snow Flurry, Saché 1963

Oggi meno nominato di altri artisti dell’avanguardia storica, Alexander Calder è tuttavia un autentico gigante dell’arte contemporanea, cui si deve l’apertura della scultura al movimento, in quella che potremmo considerare come una declinazione in chiave “cosmologica” del realismo.
Lo si potrà verificare fino al 14 febbraio a Roma, al Palazzo delle Esposizioni, che ne ripercorre l’attività con una mostra che riunisce oltre 150 pezzi fra tele e sculture, completata dalla proiezione di alcuni rari film legati al percorso artistico di Calder e da un interessante appendice fotografico in due sale, dedicato agli scatti di Ugo Mulas, che negli anni ’60 conobbe Calder a Spoleto e ne documentò la tarda attività del grande capannone-studio di Saché, in Francia.
La retrospettiva, rigorosamente cronologica, muove dal primo contatto con l’arte – cui Calder approda abbandonando la professione di ingegnere, per abbracciare un linguaggio circense “delle attrazioni” sviluppato già dalla tenera età – fino alle sculture giganti della tarda attività.
È un percorso compatto, caratterizzato da una grande abilità tecnica (e tecnologica) e da una straordinaria coerenza estetica: Calder si esprime infatti per forme ricorrenti, eppure sempre cangianti, costruendo sculture-macchine ad imitazione dell’infinita replicazione di atomi e particelle e dell’eterna mutazione della materia.
Una sorta di ricerca cosmologica, dicevamo, a stimolare la costruzione dei tenui e delicati equilibri dei “mobile” (la definizione fu coniata nientemeno che da Marchel Duchamp) cui Calder dedicò tutta la sua carriera artistica.
Si tratta di sculture costruite sul principio del cambiamento: strutture penzolanti composte da bilancieri in ferro agganciati l’uno all’altro e dai quali pendono sottili lamine di metallo laccato. Ne risultano una serie di strutture mobili, appunto, dove la materia si declina in serie imprevedibili ed infinite di forme astratte, fatte dall’interazione fra masse, gravità e “environnement”.
Labili e variabili a seconda delle turbolenze dell’aria e dei fattori ambientali più disparati, queste sculture acquistano così una sensibilità all’ambiente, reagiscono al passaggio del visitatore, verificano gravità ed equilibrio, simulano l’espansione perpetua del cosmo, descrivono galassie e sistemi stellari insoliti e poetici, sognano dell’esistenza del moto perpetuo.
Ugo Mulas. Alexander Calder, Saché, 1963.

Ugo Mulas. Alexander Calder, Saché, 1963.

È come se l’arte astratta di Joan Mirò e Vasilij Kandinskij – le loro esplosioni di geometrie e colori – diventassero improvvisamente degli oggetti. Se negli anni ’30 il gruppo surrealista esplorava l’impatto delle macchine celibi sulla sensibilità, Calder sembrerebbe rispondere nella stessa epoca con delle “macchine a vento” tutt’altro che celibi, ed anzi “dialoganti”, in un’apertura dell’opera al mondo che per certi versi anticipava il gioco delle interazioni delle nuove avanguardie con lo spazio urbano e museale.
Laddove infatti le sculture ed i ready made surrealisti assumono toni foschi e perturbanti, ottenuti mediante un mutismo enigmatico, le opere di Calder respirano il cosmo, ne captano moto e particelle, riallacciando un contatto “descrittivo” con la realtà.
Il discorso di Calder sul reale assume anche maggiore coerenza se guardiamo ad altri momenti della sua produzione, parimenti presenti nella mostra di Roma: quello più precoce, risalente al periodo del “Cirque Calder”, quando cioè l’artista allestiva mini-spettacoli impiegando macchine e pupazzi in fil di ferro; e quello più tardo in cui i “mobile” lasciavano il posto ai loro antagonisti, gli “stabile” (stavolta la definizione fu di Jean Arp), grandi escrescenze ferrose che dalla terra si innalzano verso l’alto, creando angoli, curve ed anse a riconfigurare lo spazio circostante.
È proprio i questi segmenti cronologici che scopriamo l’ossessione calderina per lo studio delle forme, in particolare nella prima fase, in cui la tendenza descrittiva di cui dicevamo si esprime nei tratti sintetici delle delle “wire sculture”, intrecci poetici di filo di ferro che compongono figurini d’uomini ed animali.
Completa ed appassionante, la retrospettiva romana su Alexander Calder offre l’opportunità di riscoprire questo grande artista del Novecento e, di fatto, parte della genesi della rimodulazione in chiave interattiva ed urbana dell’arte contemporanea.

Damiàn Ortega al Pompidou. Rivoluzione impressionista.

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Cosmic Thing, 2002
La fine dell’esposizione che abbiamo visto al Centre Pompidou dedicata a Damiàn Ortega è lo spunto per affrontare l’attività di questo eccezionale artista, ma anche il punto di partenza per una riflessione sull’attualità del motivo impressionista nell’arte “ultra-moderna”. Visto attraverso il “Campo di visione” dell’artista messicano, il problema della percezione sollevato alla fine del secolo XIX dagli impressionisti sembra essere ancora il brodo primordiale delle avanguardie che si spingono sul campo della critica della società della comunicazione.

Ortega, prima di tutto.
champ de visionL’installazione presentata al Centro Pompidou dal 13 novembre al 9 febbraio, intitolata “Champ de vision” si apre con un cartone a matita in cui la tavola periodica degli elementi di Dimitrij Mendeleev è rappresentata a spirale, dall’idrogeno, posto al centro, fino agli elementi più complessi. Così come sono disegnati da Ortega gli atomi rispondono alle teorie dei quanti: sono composti da due lastre circolari, inserite perpendicolarmente l’una nella metà dell’altra, come due monete fuse assieme.
Il cartone introduce al secondo ambiente, una stanza di duecento metri quadrati dove le stesse molecole, realizzate in plexiglass di quattro colori differenti, sono sospese nel vuoto; ancorate a dei fili di nylon trasparente formano 12 barriere.
Il visitatore è invitato ad attraversare le intercapedini di questa nuvola di molecole trasparenti in CMYK.
Sembra di attraversare un gas visto al microscopio a scansione.

Una questione di colore.
È una riproduzione della materia ingigantita fino all’atomo. Ma ci si accorge quasi subito che la sospensione delle molecole deve rispondere ad una qualche logica ottica.
Ogni filo di nylon ripete un ordine sempre diverso, ma in qualche modo simmetrico. I colori impiegati sono gli stessi della riproduzione del colore in tipografia. Ciano (C), Magenta (M), Giallo (Y), Nero (K): quadricromia. La trasparenza del plexiglass consente la sovrapposizione del colore.

Il pixel o la pennellata impressionista.
champ de visionIntercapedine dopo intercapedine le molecole si restringono. Il piano di riflessione della luce si riduce, come a descrivere due linee di fuga prospettica. Dietro un muro, infine, si può osservare la nuvola multicolore da uno spioncino.
Ma l’immagine complessiva qui si condensa in uno sguardo. All’occhio è restituita l’immagine di un occhio, di tanto in tanto attraversato da un visitatore.
Ortega ha usato gli stessi principi dell’impressione ottica studiati dalla pittura impressionista, per cui la luce è somma di un insieme di singole impressioni sensoriali della retina. Ma se in quella pittura positivista il processo rimaneva ancora sostanzialmente artigianale, con la stampa serigrafica la tavolozza ottica si riduce a quattro elementi.
Infine, nella rappresentazione ipermediale (che emette luce) la tavolozza si riduce ulteriormente a tre colori. Il rosso, il verde, il blu: RGB.
Questa riduzione ad infimo ha una portata fortemente simbolica; è una questione semantica, dunque strettamente collegata all’idea di codifica del mondo attraverso un linguaggio.
“Parlare il mondo” non è percepirlo passivamente, ma interpretarlo.
champ de visionLa weltanshauung (ed in particolare quella delle nostre società, votate alla comunicazione assoluta e mediata) si esprime anche e soprattutto nella forma del linguaggio. Del resto, tornando al problema della frammentazione dell’immagine tipografica in quattro singoli colori, questa osservazione della realtà in quadricromia non era sfuggita alla pop-art, che la immolò a simbolo stesso della cultura di massa.
champ de visionMa il gusto pop caratterizza l’attività anche precedente di Damiàn Ortega, che per la Biennale Arte 2003 sospendeva con gli stessi fili di nylon un maggiolone completamente smontato, “esplodendolo” in guisa di manuale di montaggio a dimensioni reali e tridimensionali.
In “Campi di visione” con linguaggio ancora pop, ironico ed irriverente, Damiàn Ortega non realizza solo l’ingigantimento al microscopio della materia, ma espone in un colpo una buona parte delle declinazioni specifiche della weltanschauung occidentale.

La realtà come gas. Filosofia interminabile dell’indeterminabile.
In fisica si osserva la progressiva sparizione della materia corpuscolare, per cui un oggetto (l’occhio della mostra), è la somma non solo di una quantità di atomi elementari, ma anche di una serie di vuoti.
Le più recenti teorie fisiche sulla struttura della materia si concentrano sull’indeterminazione: la materia è descritta più come una nuvola gassosa, (o come “corde” vibranti), che come insieme retificato e più o meno gerarchizzato di molecole.
Gli atomi sono così sempre “delocalizzati”, ovunque ed altrove, in perpetuo movimento.
La visione della materia della nostra società liquida sembra distante anni luce dalla gerarchizzazione delle molecole, immaginata invece dalle società che produssero anche i grandi stati burocratici.
La riduzione della materia a molecole sempre più elementari ed ineffabili è l’altra faccia della scatola ottica dalla quale il razionalismo osserva il mondo. La corsa ad infimum diventa una corsa ad infinitum, ciclo di riduzione perpetua ed incessante in cui la materia esplode, fino alla sua totale ineffabilità.
O fino ad ingoiare il mondo che conosciamo, lo spazio ed il tempo, come alcuni vorrebbero accada al CERN di Ginevra.
« […] Esistono delle vaste superfici bianche o vuote nel mezzo di una immagine apparentemente satura di colore. Si può osservare lo stesso fenomeno per gli oggetti solidi. Se si guarda la loro composizione molecolare, si scopre una grande quantità di vuoto fra gli atomi che lo compongono. Come può un oggetto esser solido e duro se contiene tanto vuoto? Ciò si deve al fatto che i suoi atomi sono costantemente stimolati e muovendosi formano un campo di tensione. Per illustrare mentalmente questo fenomeno, ci si può servire dell’immagine di una palla in gomma legata all’estremità d’una corda, che giri vorticosamente attorno ad un asse. Se siamo incapaci di dire dove si trova di preciso la sfera, è altresì possibile stabilirne il perimetro di rotazione. »
(Estratto dell’intervista a Damiàn Ortega di Anna Hiddleston e Sinziana Ravini, traduzione mia, n.d.r.)
Analoga la concezione contemporanea della percezione ottica, che nei suoi aspetti fisiologici e cognitivi è descritta come una sorta di processo di elaborazione digitale. Le frequenze luminose sono porzioni minime di stimoli: la scomposizione della luce in trame elementari porta con sé la possibilità di riprodurla attraverso algoritmi matematici.
L’immagine diviene informazione e segnale: “piège visuel”, essa si conforma alla tendenza di tutti i linguaggi contemporanei. Anche nel web semantico il messaggio e la sua fonte sono sempre più indeterminati: esistono ovunque e da nessuna parte. E la cosa riguarda sia il messaggio in sé (la provenienza e la tipologia dell’informazione sono sempre più indeterminabili) che il supporto di lettura (per il momento gli schermi) ma anche il supporto fisico in cui esso è registrato: insieme di sequenze elementari di codici, stivate ovunque e da nessuna parte, svilite del loro valore specifico.
Uomo de-localizzato come la materia che immagina e vede. La replicabilità infinita del messaggio contribuisce paradossalmente alla sua dispersione.
Per tornare al sistema delle arti, facciamo un’ultima considerazione: la scatola ottica in cui è confezionata l’installazione di Ortega è ispirata ai principi dell’ottica rinascimentale. Il che sposta indietro ancora nel tempo il limite di inizio del movimento di sintesi razionale della sfera cognitiva.