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Duesberg e la sindrome dello Yuppie

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rosso positivo

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Erano i giorni della gelatina e dei fotoni.
Sul bordo del Canal St. Martin incontrai un giovane ricercatore in genetica. Si stupì di vedermi appassionato di DNA, virus e patologie. E fu così che parlammo fino a sera inoltrata nella dolce trasparenza autunnale di Parigi.
Mi colpì una sua considerazione epigrafica: « Una cosa inizia ad esistere quando iniziamo a vederla ».
Mi parlava di un ricercatore della Berkley University, pioniere nello studio dei retrovirus, il cui lavoro ha contribuito a stabilire l’interazione e la correlazione di questi microorganismi con il patrimonio genetico umano, ed il loro ruolo nello sviluppo di malattie quali il cancro e la leucemia.
Una vera autorità in materia, cui si aggiungeva, però, un alone di follia.
Il mio nuovo amico raccontò infatti che Peter Duesberg – questo il nome del luminare – è il principale sostenitore della teoria “anti-HIV”, secondo la quale il virus non sarebbe causa diretta dell’immunodeficienza acquisita, cioè di quella che siamo abituati a chiamare AIDS.
A Duesberg aggiunse anche il nome di Kary Banks Mullis, altro eclettico luminare dell’università californiana – Nobel in chimica per avere sviluppato la PBM, una tecnica fondamentale per la moltiplicazione in vitro del DNA – anche lui da anni impegnato in una polemica sulle cause dell’AIDS ed il ruolo dell’HIV in tale sindrome.
Ma appassionato ed archiviato fu nel mio cranio l’argomento del biologo del Canal St. Martin.

Fino a quando qualche giorno fa non mi imbatto in una curiosa notizia pubblicata dal Corriere della Sera e battuta da tutte le principali agenzie.
Il titolo dell’articolo – nella sua versione cucinata del quotidiano milanese – era “Sempre stanchi? La febbre «da yuppie» è causata da un virus” e per sommario: “Svelata l’origine dell’affaticamento cronico. Sarà possibile usare i farmaci anti AIDS”.
“Febbre da yuppie” è un’efficace definizione giornalistica per quella malattia fumosa, molto simile all’influenza, che si manifesta con la stanchezza continua, le febbriciattole ed il mal d’ossa e che va e viene a suo piacimento per periodi variabili.
Un male sottile, di cui si cominciò a parlare alla metà degli anni ’80, in occasione di una “epidemia” verificatasi sul Lake Tahoe, fra la California settentrionale e l’Arizona. Una nuova misteriosa patologia classificata e schedata nel bel museo delle paure dell’occidente.
E veniamo alla sostanza della scoperta di queste settimane, che è riassumibile così: la CFS (Chronic Fatigue Sindrome) sarebbe di origine virale (cioè corpuscolare, fisica, concreta, indotta da microorganismi, dunque “esterna” all’uomo, immanente) e non la precisa manifestazione delle imprendibili e quasi concettuali cause di cui si parlava fino ad oggi, come lo stress ed i ritmi di vita serrati, già connessi a tante altre malattie del millennio, come il cancro, l’ipertensione, la cefalea, l’infarto.
Una delle cause determinanti della malattia potrebbe dunque essere un retrovirus che normalmente infetta i topi, lo Xenotropic Murine Leukemia virus (XMRV).
Le “istituzioni di tutto rispetto” che avrebbero dato la grande notizia sulle pagine di Science – riporta ancora il Corriere – sono il National Chronic Fatigue Syndrome Institute del Nevada ed il Whittemore Peterson Institute di Reno.
Praticamente la stessa istituzione, visto che in entrambi i direttivi compaiono i nomi della filantropa Annette Whittemore e del dottor Daniel Peterson, da anni impegnati nella lotta a questa malattia con farmaci a dir poco controversi.

Ipotesi Duesberg
Ciò che vediamo esiste. O meglio comincia ad esistere dal momento in cui lo vediamo.
Nel caso del virus dell’HIV si tratta del 1983, quando Luc Montagnier e Françoise Barrè-Sinouss, lo isolarono ed osservarono per la prima volta, in un laboratorio francese.
L’AIDS, invece è una sindrome, appunto, caratterizzata da un paniere amplissimo di sintomi, che nell’uomo si manifestava già prima che si conoscesse l’HIV ed il cui decorso è altrettanto nebuloso di quello della sindrome dello Yuppie.
Un profano come me può immaginarsi l’AIDS come il comportamento anomalo d’un corpo umano ove le normali difese immunitarie smettono di funzionare, inibendo la naturale reazione al mondo esterno, ed inibendo, infine, la vita.
E qui inizia la polemica di Duesberg, che si limita a notare come i deficit immunitari possano essere indotti da un arco molto vasto e piuttosto imponderabile di cause.
E d’altrone una correlazione fra immunodeficienze ed esposizioni a particolari agenti ambientali è osservata già prima della definizione di AIDS.
Il peccato originale, per Peter Duesberg, si consumerebbe nel 1984, quando l’allora segretario dei servizi per la salute americani, Margaret Heckler, annunciò in tutta fretta che il dottor Robert Gallo aveva isolato il virus dell`HIV, e gli attribuiva il ruolo mai verificato di causa dell’immunodeficienza acquisita.
Si apriva così la lunga stagione di successo della teoria HIV-AIDS.
Secondo Duesberg, però, tale correlazione andrebbe rimessa in discussione a partire da quattro domande d’oro: l’AIDS è davvero indotta da un virus? Se non è così quale sarebbe il ruolo dell’HIV nella sindorme? Il deficit immunitario può essere causato da agenti chimici? Il trattamento impiegato dell’HIV può causare a sua volta l’AIDS?
Ed infine, perché l’AIDS Africana è così diversa da quella europea ed Americana?
Queste domande sono utili, neanche a dirlo, anche per gettare uno sguardo diverso sulla proliferazione mediatica di virus e pandemie, cui in questi anni stiamo assistendo.

Alla domanda se l’AIDS sia davvero indotta da un virus, Duesberg risponde con le caratteristiche della sindrome, che ne testimonierebbero la natura non virale.
In primo luogo, dice Duesberg, i virus patogeni causano infezioni specifiche e contagiose, e sono sempre presenti nei pazienti che ne manifestano i sintomi: per contro l’AIDS di suo non è contagiosa, ed oltre 26 patologie connesse all’AIDS non sono neanche di tipo virale, (la perdita di peso, la demenza, il cancro).
In secondo luogo, nelle affezioni d’origine virale abbiamo periodi di incubazione piuttosto corti: nel caso dell’AIDS non si spiegherebbe la ragione per cui a fronte di una rapidissima e subitanea replicazione dell’HIV nell’organismo ospite, la manifestazione della malattia conclamata occorrerebbe solo a distanza di almeno 5-10 anni, quand’anche non più tardi.
In terzo luogo nelle patologie virali i primi sintomi si verificano quando un alto numero di anticorpi (T-cells) decadono: è ciò che accade nell’AIDS, ma senza connessione apparente con l’HIV, che infetta solo uno di questi anticorpi su cinquecento.
Duesberg prosegue notando che le epidemie virali aumentano e diminuiscono nel tempo, disegnando delle curve “a campana” con espansioni e contrazioni cicliche a coppie di due e quattro, mentre l’AIDS è aumentata costantemente per due decadi, contraendosi poi bruscamente, senza rispettare queste oscillazioni tipiche delle patologie virali. E ancora si deve osservare che contrariamente all’AIDS, i virus patogeni sono trasmessi orizzontalmente, e ne è fatale la trasmissione neonatale.
Anche da un punto di vista statistico, l’ipotesi HIV-AIDS non sarebbe accettabile per Duesberg, in quanto le patologie virali si manifestano casualmente nella popolazione, quando invece l’AIDS colpisce con una certa “logicità”: la sua diffusione riguarda precisi contesti sociali e può essere associata a stili di vita come l’omosessualità ed il consumo di droghe e farmaci. Si pensi inoltre, notano gli anti-HIV convinti, che non si registrano casi di infezione negli staff medici e paramedici impegnati sul trattamento della sindrome da ummunodeficienza: ciò che indurrebbe a pensare che una trasmissibilità della sindrome è praticamente impossibile, anche a contatto stretto con individui che l’abbiano in stato avanzato.
Per ultimo l’AIDS non risponderebbe neanche ai postulati di Koch, fondamentali proprio per stabilire la correlazione fra una malattia ed un microorganismo. Sono quattro principi, atti a verificare se la presenza di un batterio o di un virus nel malato ne sia la causa patogena, oppure se non si tratti di organismi “di passaggio” che approfittano di uno stato o di un male preesistente dell’ospite.
Secondo Koch un microorganismo ed una patologia sono connessi solo se si verifichino quattro condizioni: (1) lo stesso microorganismo deve essere presente in tutti i casi studiati; (2) questo microorganismo deve poter essere isolato dall’ospite, clonato e coltivato in laboratorio; (3) il microorganismo così replicato in laboratorio dovrebbe causare la stessa patologia se inoculato in un altro ospite, da cui (4) dovrà poi a sua volta essere isolato.
Detto questo, il dato più sconcertante che emerge dalle osservazioni di Duesberg è che a parità d’una presenza costante del virus dell’HIV nella popolazione mondiale a partire dalla sua scoperta negli anni ‘80, l’AIDS come malattia ha conosciuto una curva ascendente fino al primo triennio degli anni ’90, dopo il quale ha cominciato a decrescere.
Alla base della costanza del virus che abbiamo cominciato a vedere starebbero le attuali tecniche di analisi della sieropositività, le quali non sono basate sull’effettiva individuazione del virus nel sangue, ma sulla presenza di antigeni nel sangue o di catene genomiche nel DNA del paziente analoghe all’RNA del virus. Questi procedimenti di verifica indiretta del virus nell’ospite, possono facilmente registrare l’infezione laddove essa non esiste, o addirittura scambiare normali sequenze di DNA del paziente per una infezione da HIV.
Che in parole povere vuol dire diagnosticare come sieropositivo un individuo del tutto sano.

Rivoluzione Duesberg
Per quanto ne sappiamo, allora, l’HIV potrebbe anche rientrare nella vasta casistica dei virus opportunisti, quelli cioè connessi ad un disturbo solo in misura parassitaria.
E l’HIV incontrerebbe addirittura tutti i parametri che fanno di un virus un “passeggero”.
Fra gli altri è importante ricordarne tre: il fatto che pazienti affetti da AIDS non sempre mostrano di avere contratto il virus (cinquemila erano nel 1993 i casi documentati di questo tipo); secondariamente che, come per gli altri virus opportunisti, l’HIV è presente nell’organismo ospite anche anni prima del manifestarsi dei sintomi della malattia; infine, che i virus passeggeri sono presenti in grande quantità specialmente nei soggetti immunodeficienti.
Già nel 1981, il New England Journal of Medicine aveva ventilato l’ipotesi che la sindrome da immunodeficienza acquisita fosse legata a determinati stili di vita.
Il Dr. D.T. Durak, autore principale di quell’articolo direi “seminale”, datato 10 dicembre, riteneva possibile trovare le cause delle epidemie che affliggevano la comunità omosessuale di San Francisco in un cocktail di sesso e droghe ricreative (nel mirino c’erano soprattutto i nitriti come il popper, oppure altri stimolanti come le amfetamine, la cocaina, l’eroina) e nelle condizioni igieniche della città pari in certe zone a quelle dei paesi sottosviluppati, con grande proliferazione di malattie infettive e sessualmente trasmesse come la gonorrea, la sifilide, vari tipi di parassiti, la dissenteria.
Le sostanze chimiche sono da diverso tempo riconosciute anche dalla letteratura medica “ufficiale” come possibili cause di molti shock immunitari.
Un altro dato sorprendente nelle osservazioni successive di Peter Duesber è che molti dei sintomi propri dell’AIDS sono identici ad alcune patologie indotte dall’eroina, dall’amfetamina, dalla cocaina e dai nitriti, e che la curva di andamento dei casi di AIDS seguirebbe le stesse oscillazioni di quella che disegna la diffusione delle droghe ricreative, provando una correlazione piuttosto diretta fra consumo di stupefacenti e inibizione degli anticorpi.
Altri fattori – sempre di carattere ambientale – come l’inquinamento, la denutrizione o l’errata alimentazione, l’esposizione a particolari agenti chimici, potrebbero contribuire all’insorgere dell’AIDS: ciò che spiegherebbe anche la divisione della malattia in tre grandi famiglie, quella asiatica, quella euroamericana e quella africana, diversi per paniere di patologie possibili e soprattutto per decorso.
Come a dire: un AIDS per il Terzo Mondo e la sua malnutrizione, un AIDS per l’opulenza ed i suoi vizi.
Ma c’è AIDS un po’ per tutti, stando allo straordinario film documentario di Rob Scovill, “The other side of AIDS”, che spinge particolarmente sull’assenza di definizioni chiare d’una sintomatologia dell’AIDS e sulla non-validità dei test per individuare il virus dell’HIV.

La cura
Alla malattia infettiva, in occidente, si risponde con la cura ad impatto distruttivo.
Per i virus, la cui azione si esprime nell’usare le cellule ospiti e gli organuli in esse contenuti per produrre le proprie proteine, un trattamento diretto è praticamente impossibile. Per cui si ricorre sovente a farmaci “generici”, ovverosia non espressamente creati per la cura dei patogeni specifici.
L’HIV non esula da questa pratica, ed a partire dal 1987 l’AZT è diventata una delle sostanze principali impiegate nel cocktail che si somministra agli HIV positivi per l’arresto della proliferazione del virus.
Ora, l’AZT è un veleno nel vero senso del termine: usato a partire dalla metà degli anni ’60 come farmaco chemioterapico, è in grado di arrestare l’attività di produzione delle proteine, inibendo o facendo impazzire l’attività biologica delle cellule. Come tutti i farmaci chemioterapici è altamente tossico, corrosivo e causa di una serie di patologie tutte più o meno riconducibili all’immunodeficienza, come la perdita di peso, il cancro, l’ingigantimento dei linfonodi…
Dal 2001 oltre il 50% di americani ed europei malati di AIDS e trattati con farmaci anti-HIV, è morto di problemi al fegato, di malattie cardiache ed arresti renali. E s’è visto che i pazienti emofiliaci affetti da virus HIV sono esposti praticamente a morte certa con il trattamento a base di AZT, sulla cui efficacia, fra l’altro, non sono in pochi a dubitare.
Ma si persevera.
Tanto che il farmaco chemioterapico continua ad essere impiegato anche per la cura delle donne incinta HIV positive, ed in America i figli di genitori sieropositivi, pur se HIV negativi, vengono obbligati ad assumere la cura, con conseguenze ancora imprevedibili sul loro sviluppo in età adulta.

La sindrome dello yuppie
E torniamo alla sindrome dello yuppie, assimilabile per astrattezza clinica all’AIDS.
Intanto, come mi accorgo se ho la sindrome dello Yuppie?
Sei mesi di fatica senza causa apparente, presenza di almeno quattro di otto sintomi persistenti: cali di memoria e concentrazione, mal di gola, comparsa di linfonodi, dolori a muscoli e alle articolazioni, tendiniti, mal di testa, disturbi del sonno e disagio dopo gli sforzi.
Anche per la sindrome da stanchezza perpetua ci abitueremo ad usare l’AZT.
Magari in abbinamento ad un po’ di cocaina ed amfetamina, che danno sempre una bella svolta al morale.
Questo se il lettore si dovesse fidare ciecamente della filantropia.
Altrimenti, basta fare un giro nei siti ufficiali delle singole istituzioni che si occupano della nuovissima malattia da affaticamento, per dare un’occhiata ai curricula sul piatto. La presidente del Whittemore Peterson Institute, è Annette Wittemore, di mestiere maestra e filantropa, co-fondatrice del National Chronic Fatigue Syndrome Institute in Nevada, ed è una democratica convinta, a giudicare dalle tabelle delle sue donazioni elettorali.
Assieme a lei c’è il dottor Daniel Peterson, uno dei pochi in America ad avere avuto l’autorizzazione della Food and Drug all’uso di un altro farmaco molto controverso, l’Ampligen, impiegato per la cura della sindrome da fatica permanente.
L’Ampligen ha una storia tutta particolare: inventato non si sa bene per quale ragione nel corso degli anni ’60, a partire dall’1988 – stando alle informazioni disponibili in rete – fece la fortuna della casa Hemispherx, irrorata da ben 30 milioni di dollari dal colosso farmaceutico DuPont, per una applicazione su larga scala della molecola.
Farmaco tuttofare, non ha ancora ottenuto dalla FDA l’approvazione all’uso in larga scala, ma è stato candidato per la cura di tante altre malattie, fra cui l’influenza suina, quella aviaria ed ora anche… l’AIDS.
E pure qui, come per l’AZT con l’AIDS, sembra che alcune alterazioni indotte dal farmaco nei processi di trascrittrasi del DNA (RNase L), siano causa e non cura della sindrome da affaticamento cronico. Tanto che la Hemispherix è stata più volte diffidata dalla FDA per avere promosso l’impiego del farmaco, arrivato appena quest’anno alla “fase tre” del test sull’uomo, ma già ampliamente inserito nelle terapie del dottor Peterson e compagni.

La malattia per la medicina
Nel contemporaneo la produzione è al primo posto, lo sappiamo.
Basta produrre.
Il farmaco è prodotto a priori. Poi si può sempre trovare una malattia per impiegarlo.
E come nel caso degli antivirale è facile che il mercato ne abbia un improvviso bisogno capace di esaurire le copiose scorte.
Lo abbiamo visto con l’aviaria, con l’influenza suina, con l’influenza A.
E se una malattia non si trova, bisognerà inventarsela.
La questione Duesberg non è solo una disputa scientifica e medica sulla cura e l’origine di una malattia, ma una messa in discussione del nostro sistema nella sua interezza.
Ed è per questo che la comunità scientifica internazionale lo tratta da cialtrone o polemista indefesso.
Il problema è che lo studioso di origine tedesca, pone esplicitamente delle questioni di carattere formale sul sistema di indagine scientifica attuale, sempre più influenzato dai media e dalle grandi corporation, cui è demandata la formazione ed il finanziamento delle ricerche in ambito universitario, oltre che applicativo.
Il sistema scientifico segue la pioggia del denaro privato.
E ne esce accecato dai grandi interessi di gruppo, tanto che si fa sempre più difficile per uno studioso scollarsi dalle teorie universalmente accettate da una comunità scientifica asservita al potere e influenzata a sua volta dai mezzi di comunicazione di massa.
In questo panorama la ricerca pura è sostituita col suo contrario, con l’omologazione delle teorie e degli assunti scientifici, che fa dell’originalità della scoperta il suo opposto esatto, ammutolendo ogni timida voce di dissenso.
Abituati a relazionarsi con un lavoro sempre più frazionato in segmenti e specificità, i ricercatori sembrano avere perduto la visione d’insieme e la direzione generale della scienza, autocensurandosi con la produzione di quelle che sembrano sempre più analisi di mercato e sempre meno vere scoperte scientifiche.
In fondo è questo il senso delle numerose riforme accademiche e del profondo cambiamento dell’università cui, anche in Europa, abbiamo assistito negli ultimi anni: i giovani ricercatori sono invitati sempre di più ad accettare passivamente teorie e metodi scientifici imposti dalla maggioranza, vedendosi ristretti sempre più i margini di creatività ed invenzione originale.
Ed è questo il senso degli allarmismi attorno alle pandemie globali.
Alla “maggioranza rumorosa” rappresentata dai media, si aggiunge in questo modo una intellighenzia silenziosa della scienza, sempre più incapace di astrarre dal dettaglio delle proprie ricerche specifiche, sempre più parte del tutto e quindi sempre più ingranaggio della macchina produttiva tecnologica.

Etica
V’è poi la questione più espressamente etica e politica.
Se le ipotesi di Duesberg dovessero essere confermate con maggiori dati e riscontri, si porrebbe un problema assai più ampio di riforma degli stili di vita e delle abitudini occidentali.
L’immunodeficienza potrebbe insomma essere l’ultima e più tragica prova di quanto le nostre esistenze sottovuoto, i consumi, l’opulenza, lo sfruttamento del Mondosud, l’esposizione agli agenti chimici, il narcotraffico e l’uso di sostanze stimolanti per l’aumento della produttività, siano contrarie non solo alla natura psicologica dell’uomo, ma anche alla sua integrità fisiologica.
Più che una teoria medica, quella di Duesberg è una critica a tutto campo allo stile di vita occidentale (e di riflesso una critica alle conseguenze che questo stile di vita ha sui paesi in via di sviluppo). È una critica al meccanismo della crescita perpetua, che oltre al già noto corollario di patologie psicologiche e fisiche rilevate dalle statistiche, ne aggiunge una più misteriosa, l’AIDS, che in fin dei conti è una sorta di inspiegabile e subitanea impotenza biologica dell’uomo rispetto all’ambiente che lo circonda.
Disinfettati ed impacchettati, condizionati e chiusi a produrre nelle nostre scatole di calcestruzzo, spinti sempre di più verso una dipendenza farmacologica che fa bene solo alle grandi corporation farmaceutiche, gli uomini del nuovo millennio sono così rassicurati da un sistema scientifico servo dello status quo, in cui la ricerca è sempre più delegata ai grandi interessi globali.
Non è allora un caso questo insorgere continuo di virus, questa proliferazione di nuove patologie, questa ostinazione nel dare un nome a un complesso di sintomatologie, la cui causa dovrebbe oggi più che mai essere ricercata in una precisa condizione spirituale in cui versa il nostro lato di mondo.
Nella civiltà della reificazione assoluta, (dove ogni comportamento è reso possibile dall’infinita disponibilità dei mezzi e dell’assoluta assenza di giudizio) è impossibile accettare che edonismo e consumi possano nuocere: si ricorre così alle cause, per così dire, “corpuscolari” del male.
Un organismo altro all’uomo è il responsabile.
Il male è al-di-fuori (al di qua?) di noi stessi.
E la lotta contro un esercito di virus, di batteri, di microorganismi – invisibili e spaventosi – è certamente molto più facile da condurre – e certamente anche più utile come collante sociale per la sottomissione durevole – di quanto non lo sarebbe un faccia a faccia con le nostre malattie dell’anima.

Un articolo di Vallati
Il sito dell’associazione Alive & Well
Il sito di Peter Duesberg