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Roma: la pittura di un impero. Nascita dell’Europa.

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L’Impero Romano è stato ed è per l’Europa una sorta di ossessione geopolitica. La sua nascita e disgregazione ha avuto conseguenze sulla forma mentis e sulle strutture stesse del potere europeo, sempre dilaniato fra l’idea di unità universale e le differenze linguistiche e culturali.
Differenze delimitate proprio dall’incontro dell’Impero con le popolazioni autoctone e dal complesso cammino di dominio e sottomissione, integrazione e avanzamento tecnologico, che tutti i popoli (italici prima che europei) hanno vissuto al passaggio dei latini.
Le radici romane dell’Europa e della modernità intera, possono essere riscoperte in questi giorni e fino al 17 gennaio, proprio nella capitale, alle Scuderie del Quirinale che celebrano il loro decennale con la mostra “La pittura di un impero”, curata da Eugenio La Rocca ed affidata alle cure scenotecniche di Luca Ronconi e Margherita Palli.
Siamo partiti dall’ossessione imperiale dell’Europa, perché il percorso fra le cento opere in mostra ci parla del primato della pittura romana nella definizione stessa dei confini, degli obiettivi e delle forme dello stile moderno.
In questi affreschi ed encausti v’è già tutta la storia dell’arte del vecchio continente. Dal Rinascimento all’Impressionismo, dal Bizantino alla pittura industriale, la storia dell’arte imperiale sembra ripercorre le stesse tappe che dalla maniera moderna portarono all’Espressionismo.
Se il I stile imperiale si richiama esplicitamente alle suggestioni dell’arte greca, concepita come modello di equilibrio e grazia, ben presto vediamo i pennelli di questi anonimi pittori latini, approdare ad un più spiccato gusto per la stranezza e l’insolito, per poi spingersi nelle pieghe del sentimento e dell’esagerazione emozionale, con i possenti encausti delle province desertiche dell’impero.
Vi si riconoscerà la parabola del Rinascimento, il quale dalla compostezza palladiana, scivolava via via verso l’ibridazione delle forme e degli stili, fino al manierismo, ed agli articolati “trattenimenti” del Barocco. Dal I al IV stile pittorico come un cammino che ci guida da Palladio all’Arcimboldo.
Questo strettissimo rapporto di continuità – anche “evolutiva” – della pittura romana con la rinascita dell’arte nella maniera moderna – che per l’Europa intera segna anche l’inizio della Modernità tout court – come è noto trova riscontro aneddotico in moltissime fonti Rinascimentali, dalle anonime “Antiquarie prospettiche romane”, alle Vite del Vasari.
Testimonianze da cui si apprende come l’ispirazione della nuova pittura di decorazione rinascimentale, venisse da quegli insoliti figurini e motivi floreali dipinti sulle volte sotterranee degli ipogei del Colle Oppio, solo più tardi identificati con la Domus neroniana.
In quei saloni, si calarono tutti, fisicamente ed intellettualmente, ad ammirare e copiare le “grottesche”: Raffaello, Michelangelo, Lippi, Perugino… solo per restare al Rinascimento.
La continuità fra antichi e moderni è quindi solidissima, perfetta, perché storica e stilistica.
Ci viene in mente per primo il notturno rinvenuto nel “Stanza nera” della Farnesina (Triclinio C), dove nel blu intenso della notte silenziosa, con mistica sensibilità, l’anonimo artista accenna appena l’impressione retinica d’un paesaggio. È umbratile quiete che suona quasi impossibile se guardiamo alla vivida deformità delle pitture rinvenute a Pompei, nella casa detta del Bracciale d’oro, di cui la mostra alle Scuderie annovera un rigoglioso esemplare dal gusto arcimboldiano: arcimboldiano è anche il frammento che conserva una lotta fra polpo, aragosta e murena, trovato a Roma, nella villa del porto fluviale di S. Paolo.
Altri paralleli sgorgano ancora più possenti, nel caso, ad esempio, delle Sfere Armillari, macchine per lo studio dei movimenti cosmologici, la cui rara raffigurazione in un affresco della villa S. Marco a Stabia (62-79 d.C.), ricorda addirittura le forme dei trionfi teatrali dei fasti romani del Cardinal Riario o delle macchine sceniche pensate da Michelangelo.
Ma c’è davvero spazio per sbizzarrirsi in paralleli arditi, spingendosi fino al raffronto con le avanguardie del Novecento, che forse non a caso vissero in una Europa al suo ultimo, tragico, confronto con l’idea di impero.
Basti guardare le atmosfere enigmatiche e misteriose della “Punizione di Dirce”, che in una casa di Pompei del 40-50 d.C. anticipavano già certe prospettive oniriche del surrealismo; o la “Testa di medusa alata”, sempre pompeiana, la quale è un’allucinata rappresentazione di sofferenza dai toni quasi munchiani.
C’è qui tutto lo scibile artistico europeo: dall’impressionismo d’età augustea (meraviglioso il “Paesaggio e barche su fondo nero”, Pompei, 30-37 a-C.), alle deformità dilettose della natura, all’enigmatica ieraticità delle figure di Perseo ed Andromeda, che nella ricerca della dimensione spirituale ed astratta traducono le irrequietezze e le angosce del tardo impero (Nicchia del teatro Marcello, 375 d.C.) in occhi sgranati e pose astratte.
È a partire da questa figurazione penetrante e simbolica che infine l’impero romano si riversa appieno nell’arte cristiana: i mosaici di Ostia del III secolo d.C. sono tutt’uno con quelli provenienti dal medio oriente siriano e cristiano, da Madaba e dalle sue “pitture in pietra”.
E nella mostra alle Scuderie c’è spazio anche per queste remote province dell’Impero, solidali per gusto e raffinatezza alla punta di diamante del continente, a Roma, come mai forse è accaduto nella lunga storia degli imperialismi. Sono questi forse i pezzi più singolari del percorso: gli encausti di Hawara, in Egitto, la cui lavorazione a cera e colore anticipa il vigore luminoso dell’olio fiammingo.
È Roma, ed è tutta qui, in queste cento opere, nella muta espressione di una pittura che lascia testimonianza d’un impero violento e gentile, colonizzatore e modernizzatore, volgare e poetico, etico ed iniquo, retto e vizioso.
D’un potere culturale ancor prima che politico che volle tutta per sé – ed in definitiva inventò – l’Europa.