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gelatina & fotoni: ancora arabi [fine]

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gelatina & fotoni: senza titolo. Senza immagine.
SENZA IMMAGINE

Già.
Perché capisco che ora, a questo punto della storia, quando intorno a me ci sono dieci persone e nessuno nella rue faubourg du temple che si ferma.
Perché capisco che ora.
Proprio ora.
Devo togliere la pellicola amata dalla macchina fotografica.
Lanciarla in terra.
Perché quelli come animali ci si gettino sopra.
E perché io possa finalmente mettere le ali ai piedi.
Ed ascoltare gli insulti da lontano, ancora.
Tu che sei voleur.
voleur e rittal.

E penso.
Penso solo che gli arabi mi stanno ancora simpatici.
E penso anche che ovunque io abbia rubato foto, nei paesi arabi, ho sempre trovato gente pronta a regalarmene.
Penso ai volti che scorrono in sequenze di bit nella mia macchina.
Volti che mi hanno aperti a pose e sorrisi.
Quasi mai in cambio di qualcosa.
Eppure erano marocchini, siriani, giordani, afghani, turchi, egiziani, berberi.
Sono entrato in una moschea sciita.
Ho preso in foto la gente che pregava. Mi hanno lasciato fare.
Mi hanno sorriso.
Cosa c’è alle radici dell’integralismo
?
L’Impero.

Quelli incontrati a Parigi non erano figli di Allah, erano figli dell’impero.

impero luminescente.
televisivo.
digitale.

gelatina & fotoni: ancora arabi [parte IV]

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ritratto di giulia - il canale
Non prendetemi per matto.
Lo sono.
Ma in parole povere, poverissime, dico: «mais ce n’est pas numérique, monsieur… argentique: on peut pas effacer… on peut pas voir…»

Ma quello insiste.
Droit à l’image.
Ma la donna era di spalle.
effacer effacer effacer effacer effacer effacer
E dico alla donna
«soyez raisonable, madame… c’est pas à publier… c’est pas mon métier… ce n’est q’une photo où vous ne vous voyez meme pas.»
Memememememememememmememememememmememememmeme pas
aiez
confiance
Ma quelli preferirebbero un professionista, mi sembra di capire.
Mi sembra di capire che vogliono una carta.
Sarebbero più intimiditi da un tesserino plastificato.
Dalla plastica del tesserino. Plastica blu bianca e rossa.
E si lascerebbero pubblicare dal giornale, forse.
Non vogliono apparire nel buio pesto della mia camera oscura, però.

camera obscura
ragione obscura?

E certo che questi non sono neanche così antitecnologici.
No.
Mi guardano come un primitivo. Ed infine il mio strumento privo di bagliori e di immagini è qualcosa di ignoto e misterioso.
Fa più paura di un apparecchio digitale. Per questi l’immagine ferma, inesorabile, incorreggibile della GELATINA AL BROMURO D’ARGENTO fa più paura dell’immagine in movimento. Dell’immagine digitale volatile, che pensi di controllare ma che in realtà vola in un secondo; sfugge, mappatura di bit, nei gangli remoti della rete.
A moltioplicarsi in copie infinite.
In memorie infinite, numerose, effimere.

Arrivo anche a dire che no.
Non voglio buttare la pellicola.
N o n l a v o g l i o b u t t a r e.
C’è dentro il mio tempo. E la luce del canale dopo la pioggia intensa di questi giorni.
Luce trasparente che mi immagino già in infiniti toni di grigiomagico.
Infinite profondità del bianco e del nero e del grigio in combinazione alchemica.
Arrivo anche a dire che posso aprire lo sportello della macchina. Ma un istante soltanto.
Non per vedere l’immagine (retechimica), no. Ma per distruggerla istantaneamente. Distruggere gli ultimi centimetri passati sotto il diaframma. Ma conservare i primi, in un miracolo di irradiazione istantanea.
L’istante per cancellare o danneggiare per sempre la latenza dell’immagine, ma salvare, forse tutto il resto.
Sono sospetto.
Io ed il mio apparecchio MANGIANIMA siamo sospetti.
E quello fa proselitismo mentre cerco di far ragionare la donna, che guarda sempre con quei suoi occhi bianchissimi e fuori dalle orbite nere e pastose.
Proselitismo.
Ed in un attimo sono in cinque. E mi prendono per la maglia.
E poi lui che mi insulta.
Forse è mediorientale.
E mi dice
…Italiano di merda… torna al paese tuo
E poi dice
…ladro di merda… vai a farti fottere
E poi mi maledice
E poi gli altri sono già su di me
E nessuno per la strada si ferma
Il traffico scorre
e tutti mi stanno addosso e mi tirano.
Arrivano un gruppo di spacciatori.
!!!LES RACAILLES!!!

Quelli che stanno sempre in una strada privata della rue faubourg du temple.
Quelli che vendono il fumo ed aspettano la rissa col francese bene che se ne va alla Java.
Quelli lì.
Quelli lì arrivano e c’è poco da discutere.
Mi tirano la mia splendida canon
la tirano per il sigma
la tirano per il corpo
ce l’ho al collo, per fortuna. Lezione numero 1.
Almeno una ditemi che l’avevo imparata, no?
Almeno la prima lezione.

Ed ora ho imparato anche quella che alla terza intimidazione sono giovane abbastanza per levare i tacchi in una corsa forsennata.
Che ti tiri via il fiato e renda lucida la mente e forti le fibre a sentire di averla scampata.
E forte l’occhio a guardare i polimeri trasparenti dopo ed imprimerli sulla carta.
Anche se la foto è brutta.
Anche solo per mostrare un’avventura che ora è

senza immagine.

gelatina & fotoni: ancora arabi [parte III]

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canale e luce blu
Quello arriva.
Arriva eccome.
La donna mi guarda.
Io le sorrido.
Lei non può fotografare monsieur
diritto all’immagine monsieur, dice quello
diritto all’immagine cancellare cancellare cancellare, monsieur
dice quello
e quella è muta e spaventata
e quella ha gli occhi sgranati, la donnona
occhi sgranati a palla che le schizzano dalle orbite
primitive orbite
simpaticissime orbite primitive perse nell’ignoto di questa insolita tecnologia
sorrido e lo so che ho uno sguardo da coglione
diritto all’immagine
sono sensibile a tutto questo, io, perbacco
perbacco

Perbacco.
Pensate pure che fossero dei primitivi, i nativi d’america.
Ma quando ammonivano lo yankee e gli dicevano
guardati dalla foto
non fotografarci, ma che vuoi, vattene

parlavano dell’anima e del suo furto.

Avevano torto?
Avevano torto?
Lo diresti ancora che avevano torto?
Lo diresti ancora dopo avere assistito per anni al delirio televisivo?
Dopo avere assistito a questa folla di uomini depauperati di anima tutti intenti ad alimentare il proprio alter ego

fluorescente. A duplicarsi a loop nelle frequenze hertziane della sera e poi nei bit lucidi del mattino.
Quando apri yooooooooooooooooouuuuuuuuuuuuuuutube per rivederli.
Quando ti affacci sul mercato dell’immagine che tutto compra e tutto svende.
Non ti viene forse in mente che
!AH!
ad ogni passaggio fotovoltaico del sensore sulle tue vibrazioni quantiche la tua anima non si consumi?

Un pezzo per volta.
Già credi all’uomo smembrato?
Già credi all’uomo che riveste ogni mattina la stessa giacca blu e ripete la sua azione e annulla il tempo.
Già credi nella marionetta uomo, pronta a scattare al minimo impulso del tuo mouse sulla faccia di un lettore

multimediale.
Credi ad un uomo openSource o a pagamento, ma sempre fluorescente. Sempre ripetibile. Sempre contraffatto.
Crediamo già nell’uomo del video? Egli insegna libertà terribili e mette a dormire i tuoi figli.

Crediamo già che il tempo si ripeta?
Credevamo all’eterno. Ne creammo uno.
Volatile.

E comunque se è per questo i miei simpatici compagni della rue faubourg du Temple non è che fossero proprio del

tutto insensibili alla tecnologia. Anzi. Talmente tecnologici che si aspettavano un digitale da fast food da

guardare, misurare, valutare e cancellare direttamente da un pulsante della macchina.
Ed io sempre col mio sorriso da imbecille stampato al centro del viso mostro loro il dorso della macchina e dico

non posso cancellare
non posso vedere

sono un cieco al bianco e nero
la tua immagine non esiste ancora in nessuna memoria
la memoria inizia quando svelerò l’immagine latente
per ora la fascia mossa della tua figura è latente
è una rete
chimica

gelatina & fotoni: ancora arabi [parte II]

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la grossa nera - rue faubourg du temple

Hai solo fumo blu nella testa e nei polmoni.
E questa sera in fondo non è neanche troppo dorata.
Questa sera è mezza azzurra e mezza blu.
Giustamente: come il fumo nella tua mente e la nebbia nelle tue ossa.
La sera è blu e quasi fa freddo a pensarci.
Che avresti quasi bisogno di un maglione.

Ma avresti anche bisogno di un occhio che allontani ed ingrandisca ad un tempo.
Che esso ingrandisca ogni singola faccia di ogni singolo passante che si imbatta sul luogo del delitto.
Che si imbatta in una specie di RITTTTTTAAAAAAALLLLLLLLLL stordito dalla sua macchina fotografica. Con un cannone al posto dell’occhio, che spara uno scatto

appena ed incide sulla gelatina all’argento ed al bromuro l’immagine di
- un marciapiede che sale verso l’alto
(percorso da)
- una
grassissima africana nera di spalle che faticosamente lo risale, il capo coperto, costume tipico a fiori, verde
- qualche paletto con la testa bianca
(o cerino da marciapiede)
(al periferico, forse)
- una macchina che passa
- le mo-bi-let-te
- una bici
sguardi sfuggenti
Ma
La luce è talmente blu
L’ombra dei palazzi è così fredda
e pazza

La pellicoa così bianco e nero
che
- il tempo di ripresa è stato troppo lungo
così la gelatina il bromuro l’argento il polimero complesso e tutto l’ambaradam avranno preso si e no
- un corpo grasso, grigio,
- con forse qualche fiore bianco che si distingue
- scie di volti e braccia e gambe
- ed un fiammifero di strada, unico fermo in questa risacca di cellule e vento
uno di quelli con la testa bianca il corpo marrone e la mano di qualcuno sempre poggiata sopra
e quasi ti dispiace d’avere sprecato lo scatto.
E speri nella fortuna.

Ma quello arriva.
Cazzo: arriva e si infuria.
La scena lui se la cucca subito.
E quasi a bassa voce dice
“urgluglrlulgllguuuelleleluuffu-fu-fo-photo”
capito?
“urgluglrlulgllguuuelleleluuffu-fu-fo-photo”
Roba dell’altro mondo.
Roba che lo ignoro, che altro fare?
Roba che la donnona dall’aria grassa e gioviale si volta e mi guarda.
Roba che le sorrido, perdio.
Costoro mi sono simpatici.
A priori.
Come pregiudizio: giudizio emesso prima.
Mi sta simpatica questa gente.
La parola è SOPRAtTUTTO.
Anche quando essa fa male e provoca onde d’urto ed ossessioni e disperazioni.

Certo certo.
Certo certo certo.
Ma non ci hai fatto caso,
hein?
Non-ci-hai-fatto-caso?
Quello ha una barbetta strana. Una specie di pelata al contrario.
Peli di culo lunghi lunghi lunghi piantati proprio sopra l’insieme mentopappagorgia.
Anzi. Si direbbe proprio che questi lunghi e storti pelazzi siano proprio messi lì a coronare in una specie di aureola rossiccia il brutto complesso rigonfio mentopappagorgia che sostiene alla lontana il naso aquilino.
Eh si.
Una barbetta rasata tutto intorno a spuntare da orecchio ad orecchio.
Tutto sta sotto un cappellino egiziano.
Cappellino. Cartellina verde. Coranino in una mano e la benedizione di Allah (che Dio l’abbia in gloria) forse nell’altra.
Insieme al candido costume dello studente coranico.
Ma-non-ci-hai-fatto-caso?
Ma che cosa sarebbe ’sto studente coranico?
Che cosa, s c u s a?
Perché avrei dovuto? Mica sono razzista io.

gelatina & fotoni: ancora arabi [parte I]

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temple - senza titolo

Questa volta hai proprio esagerato.
O è Parigi che ha esagerato.
O la televisione.
Quella però, a dire il vero, esagera sempre.
E quindi non mi trovo a navigare, stavolta, ma mi sto nei miei pensieri.
Lo sguardo si chiude dentro al parallelepipedo della scatola ottica.Quadrato di specchi quadrati.

Dicono che dalla scatola ottica la realtà sembra più bella.
Essa è più lucida.
Indurisce i bordi passando per la lucentezza del vetro. E’ sempre luce.
Ma è luce più bella.
Tre dimensioni.
Ma che dici? Hai bisogno della terza dimensione per farne due?
Hai bisogno di eliminare per avere un punto di ripresa?
Il punto di ripresa è ciò che ora, qui, stai escludendo.Forse avresti dovuto escluderlo da subito? Che dici? O vuoi che tutti i dettagli siano sempre regolati?

Ed allora mi ritrovo sempre più spesso con l’occhio piantanto sul lentino ed il lentine dietro al cubo di vetro ed il cubo di vetro col suo specchio e con la sua proboscide telescopica davanti che prende l’immagine.
La gira e la rivolta, e rispetta tutte le simmetrie.
Specchio glacialeimplacabileetereo.
La passa dentro la mia testa che la fa passare attraverso un
miliiiiiiiiiiaaaaaaardoooooooooooooodimiliaaaaaaaardiiiiiiiiiii
di impulsi neuronici.
Come cascata di chimica.
Come allucinazione.
Come una quadratura più rotonda del mio sguardo periferico.
Riduco lo sguardo perifico dentro un apparecchio per prendere la realtà.

Me ne impossesso.
La sviluppo a mio piacimento.

Anche quella volta mi trovo così.
Sono matto.

E tiro metri su metri di polimero violettotrasparente e gelatine a dismisura ed acidi per lavarle e luci per guardarci attraverso.
Il processo della luce.
Che copia in negativo ciò che entra in positivo e torna negativo e torna positivo in un processo di trasformazione e reversibilità virtuosa.
Reversibilità della luce.
E’ per questo che non si deve credere a luce e luminescenze.
Esse ingannano e s’invertono.
Rubano, esse, il vero al vero.

Ed allora?
Allora in tutti questri kilometri di pellicola una volta mi prendono per una spalla.
Mi mostrano un distintivo tirato fuori dal giubottaccio di pelle.
Mi vogliono togliere la macchina e la pellicola e tutto.
Mi distruggerebbero anche il cervello.
Lo esporrebbero alla pioggia aggregante dei fotoni.
Me lo opacizzerebbero al nero o al bianco della totale assenza di contrasto.
Sto fotografando un ministero.
Sono davanti al lago dell’EUR.
Mi salvo solo dopo qualche ora.
E salvo pure le pellicole.

“Marescià, ma lo lasci stare, chiss’ studente di fotografia è…”

Ed allora?
Allora mi proietto a qualche mese più avanti.
Giu per la discesa della rue faubourg du temple.
Sempre lì, te: sembra che tu non veda altro, no?

No.

Non vedo altro.

Vedo solo il fiume incessante della gente sul lucido del pavé appena lavato.
Vedo la llllllllllllllllllluce di una sera rossa che scorre sotto i miei piedi.
E vedo dalla distanza di dieci millimetri TUTTO IL MONDO.
Da un OCCHIO come se fossi un

polifemo meccanico.

In locomozione verso il fiume della folla che compra e mangia e parla e puzza e profuma e guarda.
E questo occhio mi si chiude e passa facilmente a raffiche di NEROCIECO.
A raffiche che prendono il tempo e lo arrotolano su una stringa di 120 cm (e qualche ritaglio).
Vedo tutto questo.
Il mondo e più bello se capovolto e riaddrizzato dall’occhio di una reflex.
Ma quella volta.

Sorpresa.