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liberty horror

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Salvator Dalì sortant du sous-sol...

Salvator Dalì sortant du sous-sol...


Nessuna immagine potrebbe rappresentar meglio la spinta dinamica dell’Art Nouveau, di quella di Salvator Dalì che spunta dal metrò parigino, al guinzaglio un meraviglioso esemplare di “Tapiro romantico, l’animale che André Breton aveva scelto come ex-libris”.
Intanto perché a Parigi l’Art Nouveau – l’inizio di tutto, l’inizio dell’arte industriale e del design, ancora prima di Bauhaus –è celebrato soprattutto dal rapido metrò in fuga verso la modernità.
Héctor Guimard – lui, l’artefice d’una flora in ferro colato che introduce al bosco dei canali sotterranei dove correre in angusti corridoi – è il simbolo e l’essenza stessa di questo movimento innovatore a fondamento stesso del design.
Ed allora non si poteva trovare un posto migliore per la mostra “Art nouveau revival” del musée d’Orsay, a sua volta ex-stazione. Se si immagina Art Nouveau si pensa infatti ai treni ed ai padiglioni, oppure agli insoliti salotti dalle linee sinuose. Ad un mobilio urbano che somiglia a vegetazione, a grandi contenitori architettonici (stazioni, padiglioni, mercati) che sembrano serre.

Art nouveau come genere fondante ed invenzione di un concetto germinale: l’oggetto come desiderio. La forma e la funzione che si fanno disegno, ergonomia.
Art nouveau, infatti, emerge di tanto in tanto nel corso del XXI secolo, donando ispirazione ai surrealisti come Dalì, certo, ma anche alla psichedelia degli anni ’60 e ’70.
Al piano superiore della stazione d’Orsay, nella quale si mescolano i brusii museali all’andirivieni incessante dell’RER a qualche metro sotto terra ho percorso questa esposizione rapidamente, aggirandomi fra gli enormi divani a nuvola, lo specchio a goccia che sembra uscito dai concetti temporali (orologi molli) di Dalì, le variopinte copertine dei Grateful Dead, le foto di Paris Match e la grande scultura di un orso bianco.
Poi dimentico.
Ma mi schianto qualche sera fa su Dario Argento, “Suspiria” del 1977.

Susy Banner che si aggira in una terrificante reggia liberty.

Lifta, Israele: dell’architettura e di altre questioni di valori

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Visualizzazione ingrandita della mappa
La colonizzazione non si fa solo con le armi, ma anche a colpi di cemento.
E non solo di cemento dozzinale e bunker, ma a colpi, pure, di cemento pregiato e modellato dall’inventiva e dal disegno computerizzato. L’architettura è strumento di invenzione e manipolazione dello spazio che comporta sempre in sé un’ideologia.
Ridisegnare lo spazio vuol dire attribuirgli alcuni valori e privarlo di certi altri.
Oggi si fa un gran parlare “dell’europeità” di Israele: anche al di fuori del dibattito politico e mediatico, mi capita sempre più spesso, di sentir dire della bellezza metropolitana di Tel Aviv.
È un fatto che merita attenzione per valutare l’orientamento dei nostri valori.
Se oggi un europeo può percepire Israele come prossimo alla sua identità è perché esso è il frutto di un processo di colonizzazione alla maniera europea, che ha seguito le regole economiche, militari e culturali inventate a beneficio di tutto un sistema ideologico ed industriale che, volenti o nolenti, ormai ci rappresenta.
Ed eccola la nuova costellazione metropolitana israeliana fatta di Architettura e Urbanistica, a tracciare frontiere culturali verso nord, giacché col proprio sud Israele fa fatica a discutere.
Ultimo caso, la città di Holon, che ha appena aperto il suo museo del Design, una imponente struttura in fasce d’acciaio progettata da Ron Arad Associates.
Holon apre il museo del Design, Roma il Maxxi, Parigi la città della moda… La comunanza di desideri ed ambizioni è comunanza di idee. Ed i desideri e le ambizioni sono nei “paesi industrializzati” le leggi della moda, del consumo, della comunicazione pubblicitaria.

maquette del progetto di Ron Arad per Holon

maquette del progetto di Ron Arad per Holon


Lo dice a chiare lettere anche Galit Gaon, direttrice creativa del museo israeliano: la struttura è in sé un grande oggetto di design, il cui compito non è solo quello di contenere oggetti belli, ma « stimolare le industrie del paese a usare i designer, a capire che il design è parte fondamentale del processo di ricerca e sviluppo e che non è solo una questione di cosmetica finale del prodotto. » ( “Magazine dell’architettura”, anno 4,n°27 gennaio 2010).
Ribadire insomma l’inversione o l’annullamento del contenuto in favore della forma, che si registra nelle civiltà post-industriali.
La struttura di Ron Arad deve fare un effetto straordinario.
E forse farà un effetto straordinario anche sapere che ad appena sessanta km di distanza, vicinissimo a Gerusalemme c’è un villaggio, Lifta, che rimane un esempio unico di architettura tradizionale palestinese. Praticamente intatto da almeno il XVI secolo, si pensa che la sua fondazione rimonti a tempi di Nephtoah. Lifta fu abbandonato nella 1948 a seguito degli episodi di pulizia etnica da parte di Haganah.
Attualmente parte di un parco, la municipalità vuole oggi radere al suolo Lifta, sostituendogli una lussuosa rivalorizzazione, forse proprio ispirata ai moderni principi del design.

La petizione in linea
La sua traduzione in italiano
Reinventing Lifta: un articolo dettagliato su cosa riserva il futuro al villaggio di Lifta