Diario, memoria personale, sogno.
“Un’ora sola ti vorrei” di Alina Marazzi è un montaggio di pellicole 16mm e registrazioni audio che prima suo nonno e poi i suoi genitori, realizzarono a partire dai primi del ‘900 fino agli anni ’70.
È una memoria familiare profonda e delicata, che non ha nulla dell’epopea, perché si realizza nell’intimità dolce e malinconica di un rapporto mancato, quello con la madre, suicida a trent’anni dopo una radiosa felicità offuscata dai fumi della depressione e da un lungo calvario di cliniche, psicofarmaci e trattamenti psichiatrici.
Le immagini affiorano nel flusso sbiadito della memoria.
Leitmotiv del montaggio, il volto della madre, Liseli Hoepli Marazzi, la sua triste, algida profondità a presagio della fine violenta.
Le immagini scorrono e si ripetono in lunghe moviola fra videoarte e documentario.
La giovinezza spensierata e le lettere affettuose.
Un viaggio a capo nord.
E poi l’amore, le partenze. I saluti sulla banchina ferroviaria. Un soggiorno in America. Fino alla maternità e ad una sensazione di inadeguatezza ed indecisione che monta, monta, monta, come un insetto nella mente, di cui prende via via dominio e controllo.
Tre generazioni in scene d’interno familiare.
Un mondo così vicino eppure antico e che a tratti sembra più lieve di quello odierno, pur nella tragedia sempre sottesa, già scritta dalle prime immagini, dalle passeggiate dei bisnonni.
Memorie intime d’una intellighenzia italiana – Liseli era figlia di Carlo Hoepli, editore milanese protagonista d’una stagione culturale italiana – dietro la cui immagine di successo cova la depressione e la nevrosi, mal sottile inspiegabile ed improvviso, mal borghese, appunto, figlio paradossale del benessere e della spensieratezza.
Risuonano i temi nel Novecento in questo documentario sincero e personalissimo: vi risuona la depressione di Zeno Cosini, la malattia borghese e l’incomprensibilità di un male nuovo perché inatteso e più forte dell’amore.
La voce fuori campo impasta la memoria visiva con quella scritta; recita le frasi semplici, felici e disperate di Liseli, prese dalle corrispondenze e dai diari che l’accompagnano per tutta la vita, dalla serenità milanese alla disperazione delle cliniche svizzere, dal rapporto difficile con un padre pratico ed autoritario all’amore smodato per un uomo dolce e comprensivo.
Mondo antico, diverso dalle odierne velocità.
Un mondo di lettere e di pensieri e di altalene sospese su moli estivi.
Un mondo di cui Alina vorrebbe un’ora appena in più.
Un manipolo di umani è rinchiuso in un bunker militare, al riparo dalla marea di zombi che ha invaso gli Stati Uniti.
“The day of the death” (1985) – “Il giorno degli Zombi”, in italiano – è l’ultimo capitolo della trilogia di George Romeo introdotta dai ben più noti “La morte dei morti viventi” (1968) e “Zombi” (1978).
Al centro della trama – girata con estetica rigorosa, ai limiti della video-arte, con immagini di rara e possente visionarietà – v’è il luogo letterario dell’assedio.
Mentre alla luce del sole gli USA sono ormai sotto il controllo dei non-morti, nell’ombra delle barricate e i sacchi di sabbia della caserma, gli ultimi sopravvissuti ingaggiano una lotta all’ultimo sangue per la vita.
Ma gradualmente il nemico numero uno non sono più gli zombi, che anzi, si fanno quasi innocui, ma i membri del gruppo, sempre più coinvolti da una spirale di follia e violenza.
Eccoli, allora, gli esseri umani, divisi fra scienziati e militari, fra logica disumana e violenza assoluta.
I primi sono diretti dal dottor Logan, folle e nevrotico dott. Frankenstein, che investe tutte le sue risorse nell’allucinata ricerca di schemi logici e sociali nel comportamento dei morti viventi. Le speranze di salvezza del gruppo sono così affidate al delirio d’onnipotenza di una scienza che smonta e rimonta cadaveri e che mette in scena sinistre conversazioni famigliari per educare all’uso della pistola lo zombi “Bub”, nutrito a piene secchiate delle viscere degli umani caduti.
Dall’altro lato della barricata troviamo il Capitano Rhodes, militare violento ed accecato dal potere, che minaccia tutti con la pistola e che innesca una catena di violenza incontrollabile in cui il gruppo è costretto alla prova estrema della morte per linciaggio reciproco.
In questo mondo pericoloso e crudele, dove il lato oscuro dell’uomo si esprime con sudicia e raccapricciante violenza, troviamo Sara, unica donna del gruppo, continuamente esposta al rischio della violenza carnale e per sua fortuna spalleggiata da due outsider: l’elicotterista John ed il tecnico radio suo compare, con i quali riuscirà infine a prendere il volo, in una fuga disperata dall’umanità e dai suoi sottoprodotti.
In questo splatter mozzafiato, in cui i dialoghi sono a tratti più importati dell’azione, gli esseri subumani sono ancora una volta per Romero la ghiotta occasione per attivare un corollario di metafore sulla società.
Dalla violenza codarda dell’esercito, che si eccita infierendo con sadismo sui morti viventi e poi sugli esseri umani, ad una scienza che fa lo stesso mescolando cadaveri in pezzi, ed ottenendo uno Zombi capace d’un amore rozzo e bestiale. E si arriva infine alla critica della civiltà americana e della sua tensione all’accumulo, di beni ed informazioni, resa vana dalla catastrofe della distruzione globale.
Sigillati nelle grotte, gli ultimi umani superstiti siedono su una pila di documenti dove sono registrati tutti i rischi per la sicurezza nazionale americana, dalla catastrofe naturale all’attentato.
L’ordine mondiale reganiano, la strategia della sicurezza totale e globale è inesorabilmente vano.
E neanche la lucida razionalità di Sarah servirà a dare un senso a questo lungo elenco di eventi, che nessuno, ci dice John, si degnerà mai più di leggere.