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ode alla pillola nella festa della mamma (o giù di lì)

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Non c’è migliore occasione della festa della mamma per festeggiare una pillola che impedisce… di esser mamme.
A ricordare l’anniversario un interessante articolo di Nancy Gibbs comparso sul Time – ed uscito nel numero di Internazionale di questa settimana – che ripercorre la storia di quello che è diventato un simbolo della liberazione sessuale e dell’affrancamento della donna dalla “società dei padri”.

A 50 anni dalla sua approvazione da parte della FDA americana, la pillola contraccettiva resta uno dei contributi fondamentali della medicina al controllo delle nascite.
Ed è una storia piena di paradossi, la sua, a partire da un dettaglio sulla sua storia: fu scoperta infatti nell’ambito delle ricerche per la lotta alla sterilità femminile e con il contributo fondamentale d’un cattolico praticante, tale John Rock, la cui idea era quella di sfruttare il periodo di “superfertilità” successivo alla sterilità temporanea indotta dal trattamento al progesterone.
Da allora tanta strada per la pillola, fedele compagna della rivoluzione sessuale targata anni ‘60, ed ancora oggi protagonista di dibattiti, timori, pregiudizi e leggende.
Quello che possiamo dire con certezza oggi (ieri?), 9 maggio del 2010, è che dopo la pillola la consapevolezza nel diventar mamme è aumentata.
E che quindi le mamme di oggi sono in un certo senso mamme potenziate. Mamme per scelta, oltre che per diritto e vocazione. Mamme all’ennesima potenza…
E se in un certo senso il femminismo, e con esso l’affrancamento della donna nelle civiltà occidentali, è stato un fattore di accelerazione dei processi consumistici ed edonistici, la pillola libera per tutte è la possibilità reale e sacrosanta di una scelta etica a monte dell’aborto.
E chissà che cosa penseremo fra qualche decennio della tanto discussa pillola abortiva.

Comunque, per festeggiare la mamma, la donna (e la pillola), vediamo insieme un rapido montaggio da “Vogliamo anche le rose”, bel documentario di Alina Marazzi sulla condizione femminile in Italia, di cui qui abbiamo selezionato uno stralcio sulla “cucina postfemminista” ed uno sulla magica pastiglia dell’amore.
Niente a che vedere col Viagra, anche se oggi si fa sempre più un gran parlare del “pillolo”, ultimo lasciapassare (forse) per una più perfetta parità fra sessi.
Auguri mamme.
Auguri pillole.

il sessantotto da uno che nOn c’era [V]

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Come per Marcuse, il fachiro nel sistema dominante, tutto viene inglobato e diventa dieta igienica.
Allora l’autodeterminazione dei popoli? Fa problema oppure è usata per condizionare l’opinione pubblica?
C’è il Tibet. C’è il Kosovo. C’è la Palestina.
Quale autodeterminazione dei popoli abbiamo scelto oggi nel ricco menu dell’informazione globale?
Il volume delle parole è più proporzionale alla quantità di morti o di abusi?
Ti ricordi di Yasser Arafat?
Ti ricordi dei muri di calcestruzzo?
Ti ricordi del Sessantotto?
segoneon - photorights artMobbing @ rk22.com
Eppure oggi suona ridicola la tavola rotonda del potere e le sue convergenze complottistiche fanno ridere.

[immagine bianconero di Peter Sellers che fa il saluto nazista. Stranamore?]

Già: non esiste alcun tavolo tondo delle decisioni. La tendenza è ben più terrificante: la tendenza è l’auto-omologazione che ha sostituito da un bel pezzo l’autodeterminazione.
E certo le interfacce e la semantica web ci stanno mettendo del loro.

Qualcuno obietta: ma hai già visto una pubblicità su internet che ti è veramente rimasta nel cerebro?
La risposta è chiaramente no. Ma la risposta è anche che internet usa mezzi di persuasione occulta, che il trucco è la facilità di accesso alle informazioni, le quali, proprio in virtù del fatto che sono scelte volontariamente dall’utente, sembrano meno mendaci degli altri media. Internet è la verità.
Ma siamo poi davvero sicuri che sia una verità meno mendace?

Se il linguaggio diventa lo stesso per tutti, ed essendo quella del linguaggio la dimensione stessa dell’esistenza umana, cosa sta accadendo alle nostre PERCEZIONI ora?
Cosa succede se nel cervello di un americano, di un europeo, di un giapponese, si attivano gli stessi circuiti e si vanno a toccare le stesse corde?

Il linguaggio produce senso: non dimentichiamo le pagine di Heidegger in cui si spiega in che modo la parola verità influenzi l’immagine mentale stessa che il greco antico ha della verità.
Nel mondo greco, ci dice il filosofo, la parola Aletheia, che suona come “verità”, vuol dire in realtà non-ascosità non-velato; di qui la verità come svelamento (Unverborgenheit).
Da un punto di vista linguistico è attraverso la parola verità, insomma, che il greco ne coglie l’essenza metafisica.

“[…] la metafisica non porta l’essere stesso al linguaggio, perché non pensa l’essere nella sua verità e la verità non come svelatezza, e la svelatezza non nella sua essenza. Nella metafisica, l’essenza della verità compare sempre e solo nella forma già derivata della verità della conoscenza e della asserzione. Eppure la svelatezza potrebbe essere qualcosa di più iniziale della verità nel senso della veritas. Aletheia potrebbe essere la parola che dà un’indicazione non ancora esperita sull’essenza impensata dell’essere. E se le cose stanno così, allora è chiaro che il pensiero della metafisica, che procede per rappresentazioni, non potrà mai raggiungere questa essenza della verità,[…]; si tratta di porre attenzione all’avvento dell’essenza ancora non detta della svelatezza in cui l’essere si è annunciato. Nel frattempo, alla metafisica, durante tutta la sua storia da Anassimandro a Nietzsche, resta nascosta la verità dell’essere. Perché la metafisica non ci pensa?” [ICM, pg. 321]

Nella grancassa del Web il complotto in realtà si concerta a solo. E’ una questione di semantica.

Anche il principio della parità – almeno virtuale – dei diritti di ogni uomo di fronte alla giustizia subisce nel sistema americano un pericoloso decalage: si verifica così lo scollamento del potere delle Corporation dall’interesse personale.
Il diritto americano non prevede alcuna condanna penale per i dirigenti delle corporation, ammettendo implicitamente che la corporation sia un organismo a sé, suscettibile di prendere decisioni autonome e di avere un comportamento che trascende da quello degli individui che lo compongono.
La corporation è insomma un individuo, ma viene da sé che il deterrente della pena, su un individuo che esiste solo nelle cifre cabalistiche della borsa, è nullo.
Habeas corpus, si, ma quale corpus?
Corpus consumisticus?

Detto questo, come si può pensare che il consumismo non sia il male del capitalismo?
Anche se la produzione viene finalizzata, cosa resta dell’anelito di ciascuno all’autodeterminazione?
Cosa vale un corpo se esso serve solo per impartire consumi?
Cambia qualcosa se questi consumi sono giusti o ingiusti?
Non è piuttosto il consumismo una forma di abbattimento dello spirito?
E cosa succederà quando questo consumo sarà ECOCOMPATIBILE?

Leggi l’ottava puntata de “Il Sessantotto da uno che c’era” su Internettuale.net

il sessantotto da uno che nOn c’era [IV]

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hitlerMASK - photorights artMobbing @ rk22.com
Non ne usciamo più.
Di tutte le urgenze possibili, tutte le urgenze possibili passano per la mia posta elettronica.
E così il mio livello di consapevolezza aumenta insieme al livello di consapevolezza globale.
Aumenta il livello di consapevolezza globale assieme al calore dei server.

Uhm.
Siamo davvero consapevoli, infine?
Se ricevo la newsletter sul Tibet ogni settimana ed ogni settimana ho l’incombenza di leggerla sarà un esercizio spirituale? Oppure sarà una replica in salsa ecosensibile del mio lavoro?
Perché i nuovi schiavi spirituali sono soprattutto schiavi della routine.
Schiavi di una interfaccia o di un telecomando.
Se i sentimenti si sottopongono allo stress della tastiera e del messaggio istantaneo è meglio prendersi una pausa dai sentimenti?
…o dall’istantaneità?

Sono sbarcato al nord. E sono finito in un entourage.
E questo entourage era la libertà: un appartamento spagnolo, dove l’apertura cosmopolita era la regola.
Ed ecco che tutti questi sconosciuti mi sembravano affascinanti e padroni di un mondo che io ancora non sapevo controllare.
Giovani europei capaci di una libertà che credevo assoluta. Di una tolleranza a me ignota.

Multiracial. Multicultural.

Ma se la libertà è soddisfare dei bisogni, che tipo di libertà ci stiamo comprando quando tutti i nostri bisogni sono inventati?
E addirittura: la libertà può diventare il grimaldello per appagare i propri bisogni personali.
O semplice disinteresse per l’altro. E per il suo punto di vista. Che poi è lo stesso.
Che libertà è questa?
Avere a disposizione il proprio tempo, come prima non sarebbe potuto accadere, col lavoro in fabbrica ed il lavoro da impiegato ed il posto fisso.
Fare il ricercatore. Avere il proprio tempo.
E poi non spenderne neanche un secondo per cucinare per qualcun altro.
Mangiare fast food per avere il tempo di guardare la televisione.
Vivere… alla giornata. Ma con una rete a proteggerti in basso.
Vivere. Cacare. Vivere.

Pasolini è morto per te…
Baudelaire è morto per te…
Luigi Tenco è morto per te…

Qualche tempo fa mi trovai ad invitare un’amica a restare ad una festa.
Un buon amico comune partiva ed era l’ultima possibilità di salutarlo.
Insistetti un poco.
E poi mi fu rimproverato che non rispettavo le sue libertà.
Che ognuno è libero di fare ciò che vuole e che non avevo alcun diritto di insistere.
Un invito affettuoso che diventa una violazione della libertà.
Non solo: una questione di libertà per decidere di rimanere o meno ad un picnic.
Una questione di libertà per questo: eppure siamo disposti a vendere le nostre vite, i dati che ci riguardano, a parlare delle nostre abitudini e semmai ad influenzarle, in cambio, magari, di una ricarica da dieci euro sul cellulare.
O dell’iscrizione alla giusta causa della newsletter per il Tibet.
Ma la libertà è un fatto relativo?

Socrate suicida per noi…
Heidegger è morto per te…
Nietzsche è morto per te…

teleObSSession - photoRights artMobbing @rk22.com

Abbiamo così inventato una libertà fachira. Una libertà che mangia se stessa, perché la sua necessità primaria è l’abolizione dell’altro.
La libertà di vedere il nuovo documentario di Moore noleggiato nuovo fiammante da blockbuster ed indignarci.
Non di noi stessi, però.
Libertà fasulla, allora, perché la più grande delle libertà è fare con l’altro.
Se non per l’altro.

Così anche chi mette in luce il meccanismo di assorbimento della protesta da parte dello status quo, come Marcuse, è fachiro a sua volta. È così, certamente.
E questi nuovi allibratori si innalzano su cosa?
Su una massa che ha tutti gli strumenti apparenti per la conoscenza, ma che non comprende che i medesimi strumenti sono qualcosa pronto ad esplodere. Così come un DISASTRO atomico.

Documentario sugli inizi dell’occupazione cinese in Tibet.
Rimango stupito di vedere un fatto comune ad ogni rivoluzione in ogni parte della terra: si bruciano i libri.
È preistoria rispetto a quanto è possibile oggi fare con una sequenza numerica.
Possiamo perdere la memoria.
Perderemo la memoria.
E quel che è peggio è che in pochi (nessuno?) se ne renderanno conto.

Questi cosmopoliti.
Questi residenti all’estero passano così le loro giornate.
Ad ogni discussione si apre l’i-mac. Si connette la wireless. Si apre wikipedia.
E tam.
La soluzione.
La soluzione dunque non è più nei nostri cervelli?
E la rivoluzione? Dov’è la rivoluzione?

Epoca della DELOCALIZZAZIONE TOTALE la nostra era sta delocalizzando le conoscenze.
Significa che le nostre conoscenze, i nostri appunti, i nostri ricordi, le nostre sapienze più intime non albergano più nelle nostre tasche.
La civiltà latina aveva fatto della delocalizzazione il proprio punto di forza.
Delocalizzazione della cittadinanza romana, che non dipendeva più dalla nascita in Roma.
Delocalizzazione della formazione, con la crescita intellettuale del patriziato romano in Grecia.
Delocalizzazione della guerra, con l’allontanamento delle frontiere, e quindi degli scontri, dal centro nevralgico dell’impero.
Delocalizzazione: immaginate un condottiero come Pompeo quanti anni passò lontano da casa.
E quanti anni per Cesare?
Le culture nomadi dei nuovi continenti vivano anche esse nella delocalizzazione.
La differenza è che in tutte queste civiltà esisteva un bagaglio al seguito.
Un bagaglio chiamato cultura, per cui l’uomo ne era il legittimo proprietario anche ALTROVE, in quanto faceva parte integralmente di se stesso.
Con questo bagaglio l’uomo era pieno anche se nudo.
La nostra civiltà dell’altrove ha favorito lo sviluppo della mobilita INDIVIDUALE arrestando però il movimento della cultura, concentrata sempre di più in basi dati e centri di elaborazione di calcolo.

Tutte le verità che ho l’impressione di portare nelle mie tasche con qualsivoglia strumento di registrazione tecnica albergano sempre di più in un solo punto cartesiano.
Sono libero, insomma, di consultare una sola fonte.
Così lontana così incredibilmente vicina.

Società della DELOCALIZZAZIONE TOTALE le nostre società hanno creato solo un’apparenza di movimento. Perché la VELOCITA’ non va confusa col MOVIMENTO.
Perché virtualizzando le conoscenze ed i saperi abbiamo l’impressione che essi si muovano con noi, quando invece restano fermi.
Fin quando non potranno più seguirci neanche nei sogni, come forse già accade.

only Puppets - photorights artMobbing @ rk22.com

Fra i membri della nuova barbarie cosmopolita (che non corrisponde al cosmopolitismo) va molto di moda lo Tziget festival, manifestazione rock che ha luogo ogni estate a Budapest.
Andai a Budapest nel lontano 1999.
Ricordo una città di incroci, priva di piazze dove incontrarsi.
Ricordo un abisso inospitale per un figlio del G8.
Un abisso che ci costrinse a qualche maltrattamento poliziesco. All’inefficienza dello stato postcomunista che non sapeva ancora cosa farsene del turismo globale (che in pochi anni diventerà SESSUALE).
Fummo costretti a dividerci a causa d’un furto.
E restammo in una caserma e poi sotto la pioggia in attesa che un interprete ubriaco di vodka ci dicesse che era colpa nostra non si capiva bene di che.
E restammo a guardare il ladro che aveva distrutto il nostro vizio del viaggio uscire tranquillo.
Ricordo anche che nella povertà ancora incredibile di un paese che aveva i palazzi reali del centro pieni di senzatetto, cominciavano a spuntare i primi templi del consumismo.
McDonald’s e KFC. (Io vedevo per la prima volta un KFC, lì, in mezzo ai detriti del muro, ce n’erano già a centinaia).
A Gyor restammo un pomeriggio a spiare quelli del posto che avevano la nostra stessa età fare la coda per entrare al McDonald’s mentre nelle taverne c’eravamo solo noi.
Il nuovo avanzava.
Oggi una specie di rito collettivo di espiazione delle differenze con l’occidente si tiene ogni anno a Budapest. È un festival rock.
Dovrebbe ricordare Woodstock.
Ed i giovani europei no-global ci si sentono a proprio agio anche a causa i quei primi fastfood.

Prendo questa citazione dalle memorie di Giuseppe Spezzaferro sul Sessantotto:
«E’ corretto dire che il delta odierno è stato creato dal fiume sgorgato nel Sessantotto, perché ad egemonizzare la cultura di quegli anni è stata la parte legata a schematismi ottocenteschi costruiti sulla malvagità del capitalismo, sull’autoritarismo liberticida, sul paternalismo ipocrita e sulla borghesia rapinatrice (oltre che sulla religione oppio dei popoli e sulla dittatura del proletariato).»
E rispondo che il fenomeno trae origini più profonde nel materialismo illuminista.
Che ha inventato il diritto alla felicità, pensando allo stesso tempo che lo spirito fosse vapore balsamico.

Leggi le memorie sul Sessantotto di Giuseppe Spezzaferro che ispirano la serie “il sessantotto da uno che nOn c’era”

il sessantotto da uno che nOn c’era [II]

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antigaz - artmobbing @rk22.com
È davvero un progetto ambizioso, quello di Giuseppe Spezzaferro, scrivere una storia del Sessantotto dalla parte di chi c’era davvero per “farci entrare dentro chi non c’era”: segno di una urgenza, che sottolinea quanto sia importante oggi una riflessione sul movimento studentesco lontana dalla retorica telegiornalistica e giovanilistica.
Non solo. L’obiettivo di internettuale è di fornire una testimonianza dalla parte di chi ha vissuto un senso di appartenenza e di chi questo senso di appartenenza se lo è portato dentro, applicandolo integralmente alla vita, senza compromessi.
Senza passaggio alla politica.
Del resto sembra proprio questo il male del Sessantotto, il passaggio alla politica, che corrompe necessariamente l’ideale negando la possibilità “semantica” della rivoluzione.
Ecco la crudeltà del Sessantotto: scoperta dell’informazione mediatica, espansione istantanea delle conoscenze.
Si corre verso lo spazio: cosa è la corsa allo spazio se non una visione radicalmente diversa, globale, dell’umanità? Inizia, nel Sessantotto, l’idea che il mondo sia una pallina da guardare da fuori.
La fotografia ed il filmato: le tecnologie dell’immagine entrano prepotentemente nella vita di tutti i giorni.
Il mondo come scenario da registrare.
Si inaugura la dimensione panoptica del contemporaneo.
Ciò che stupisce è l’apporto originale del “gruppo del Teatro”: un apporto singolare che spinge Giuseppe Spezzaferro a parlare di un Sessantotto come storia di uomini e di idee, avventura di gruppi ben distinti, più che movimento globale.
Ed è questo un approccio ermeneutico in perfetta concordanza con l’altermondialismo del gruppo del teatro: un altermondialismo che non si basava sulla scelta di altri mercati (e quindi di una etichetta biologica in luogo di quella tradizionale) ma sulla contestazione radicale di una barbarie etica. Quella americana.
Percorrendo la storia ideologica del movimento del gruppo del Teatro ci troviamo allora di fronte a posizioni paradossali, almeno da un punto di vista contemporaneo.
Da un lato l’autodeterminazione dei popoli, assunta come principio fondamentale a regolazione della politica internazionale; dall’altro una identità europea forte: un passaggio che il tempo sembra avere contraddetto, se pensiamo come il principio di autodeterminazione sia stato usato, ieri ed oggi, per l’affermazione delle ragioni dei più forti.
Pensiamo a livello locale agli indipendentismi della ricchezza: il nord-est italiano, i Paesi Baschi e la Catalogna in Spagna. O livello internazionale al recente esempio del Kosovo, anche se il Medio Oriente sarebbe a sua volta ricchissimo di esempi di autodeterminazione per così dire “eterodotta”, che del resto, l’Italia ha vissuto nel suo passato napoleonico.
Quale Europa? Qui la posizione di un capitalismo umano è modernissima, così come è moderna l’idea che una Europa delle banche potesse essere un terreno di confronto già in qualche modo politico.
Ma stupisce che queste posizioni venissero proprio da lì. Proprio da quell’estremismo giovanile da cani sciolti, quando oggi ogni radicale si caratterizza da idee del tutto opposte.
Cosa ne ricaviamo? Innanzi tutto che l’idea della contestazione radicale, nuda e cruda, o di una sinistra oltranzista e senza compromessi, è uno strumento del sistema dominante, affermatosi appunto definitivamente con il Sessantotto. Se ammettiamo questo, e cioè che la rivoluzione sia divenuta uno degli strumenti più potenti di merchandising (soprattutto non solo politico), allora possiamo capire da quale Sessantotto il terrorismo provenga.
Ed è quello il Sessantotto che ha vinto.

Leggi su internettuale.net:
Il sessantotto da uno che c’era (parte I)
Il sessantotto da uno che c’era (parte II)

il sessantotto da uno che nOn c’era [I]

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Rispondiamo a internettuale.
Con il ‘68 il processo di omologazione ha avuto una accelerazione esponenziale.
Il ‘68 ha abituato tutti alla moda. Tutti al consumo.
Il ‘68 ha reso più digeribile la disgregazione dell’unità fondamentale delle nostre società, la famiglia; ed ha affermato con maggiore vigore la corrispondenza diretta fra scienza e pragmatismo.
Nuovo Illuminismo?
Il ‘68 ha trasformato i vecchi bisogni in necessità e ne ha creati di nuovi.
Edonismo fa rima con ‘68.
Il punto però è che proprio l’incoscienza che qui si evoca con tanta forza donava a questo edonismo delle insolite qualità.
Il ‘68 ha esplorato un terreno per certi versi vergine e questa virginalità – la scoperta di nuove, inattese possibilità – lo rende una specie di peccato originale del nostro tempo. Ed il peccato originale (in barba ad ogni teologo) è meno grave, perché è primigenio, non conosce la detestabilità della perseveranza.
Primi in tutto i sessantottini.
E questo primato ci suggerisce prospettive virginali, innocenti.
La società era un foglio bianco, bastava impugnare la penna e disegnare.
Il ‘68 è stato muovere i primi passi nel candore della neve appena caduta.
Le orge di woodstock appaiono un esempio puro d’amor libero.
Le droghe chiavi per aprire nuove porte.
Twiggy un essere etereo, mediante una magrezza inedita il corpo diventava trasparente.
L’autostrada l’arteria dentro cui pompare un nuovo modello di sviluppo e comunicazione una nuova forma mentis: la velocità.
Le immagini dei beatles che rimbalzavano da un capo all’altro del mondo creavano una nuova, rassicurante, “prospettiva domestica globale”: si scopriva che ci si poteva sentire a casa anche in Giappone.
Oggi, nell’ordine: perversioni sessuali, tossicodipendenze, anoressia, atteggiamenti compulsivi, manipolazione delle masse.
E proprio sulla onnipresenza dei beatles nei media vale la pena soffermarsi: è da lì che inizia la società contemporanea dello spettacolo (il tanto criticato showbitz). Dovremmo puntare il dito contro questo inizio, analizzarlo criticamente, ma non possiamo non sorridere dell’innocenza dei fab four, del loro sguardo a quel mondo che proprio allora cominciava a diventare piccolo come un mandarno.
La società odierna è frutto del ‘68, è vero.
E l’immagine positiva con cui ricordiamo il ‘68 ha contribuito a renderlo integrale.
Oggi, per paradosso, siamo integralisti di quella contestazione e di quella libertà, tanto che ne siamo diventati schiavi.
Tanto che non comprendiamo più bene cosa fare di questa libertà.
La degenerazione sta forse nell’assenza di questo romanticismo da “prima volta”, nella trasformazione delle menti fin nelle profondità neurali di un linguaggio che ha voluto prendere i segni esteriori di quella rivoluzione senza riuscire a costruire una “ermeneutica della libertà” (o ermeneuitica della rivoluzione?).
Ed è così che quella distesa di neve bianca, calpestata e ricalpestata dopo il primo, mistico, attraversamento è oggi fango e poltiglia.