inverno invisibile [parte I]

scritto domenica 21 gennaio 2007 alle 22:19

inverno invisibile

In quel momento un grappolo di molecole rallentava il suo moto oscillatorio casuale.
Anzi accelerava.
Anzi si innalzava in colonna verso l'alto.
Anzi. Pioveva come una tepesta solare fra le maglie di ghisa del radiatore ad olio e ne veniva immediatamente sparata via. Lontano come la palla di Joe di Maggio. Secca come la morte contro lo spigolo acuminato di una scaglia di pelle piantata nella crepa invisibile della carta da parati.
Un grumo di grasso sfrigolava felice e lontano da ogni orecchio umano, appena poggiato su di un grano ferroso acceso dal tungsteno rovente.
Sfere. Sfere. Sfere.
La complessità della polvere. Grani in sospensione.
La stanza era un brulicare di infinito.
Gangli al cui interno si disperdevano (o raccoglievano) universi interi.
Mondi di polvere. Corpuscoli in sospensione appena al di sopra del divano, pioviuti da qualche parte. Forse scampati al magnetismo della torre o al calcio sparato di colpo contro la palla, giù, nel parco di Belleville. Forse piovuti dritti dalla scia di un aeroplano.
Resti di cibo ed acari perduti nel nulla degli asteoridi, a cavalcare le onde imprevedibili dell'azoto festoso ed eccitato da tanti fotoni.
Appena sulla sua testa in quel momento una molecola di Sputnik rispedita al mittente dall'abisso cosmico. Acciaio temprato. Si sarebbe piantata come un coltello proprio nell'interstizio misterioso fra la pelle del dito indice e la madre dell'unghia. Laddove le scaglie di cellule morte si accumulano, senza spazzini che vengano e cercarle. Si sarebbe scagliata in quel punto e vi sarebbe rimasta per chissà quanto altro tempo ancora se solo non l'avesse confusa con il filo di monossido che si allungava grigio fra le sue dita. Una miscela tossica di anidride carbonica, zolfo e carbonio. Una nube non meno densa di quel nembo di vapor acqueo cui lei, la microscopica particella metallica, aveva miracolosamente scampato prima di essere proiettata nel nulla assoluto, nell'assenza rilassante dell'attrito.
Impigliate nella barba, fra la folta folla di batteri intenta alla manducazione del sebo ed i giganteschi sidecar che percorrevano in lungo ed in largo il suo corpo: il fiocco di un fiocco d'avena provieniente dall'illinois (o meglio, lavorato nell'illinois a partire dall'avena del massachussets), il resto mai rimosso di un globulo rosso, (si sarebbe quasi detto della banale emoglobina ossidata, anche se tutta la colonia dell'impronta digitale dell'indice destro, che periodicamente si accostava ad accarezzare i peli del mento era concorde sul fatto che si trattasse della monolitica volontà divina) ostinatamente incastrato esattamente fra le crepe periferiche del milionesimo poro a partire dalla piega destra della bocca, della grafite in scaglie di colore nero, una quantità infinita ed inquietante di micropolveri fra le quali troneggiava la punta acuminata dell'asbesto piovuto dalle pastiglie del freno di un pullman turistico targato ΠK 0354.
Ed ancora plastiche (dio, quante plastiche), frammenti di vetro, un cristallo svarowski quasi integro, la scaglia di pelle di un clochard, i resti dell'olio greco mescolato a quello italiano pagato a peso d'oro all'Unik, una parte infinitesimale dei materiali di risulta dello scantinato appena aperto a venti kilometri da lì, a Villejuif… anche se indubbiamente il resto più interessante di tutti era il frammento preziosissimo dell'osso di seppia raccolto nella lontana estate del 1985 sulle spiagge della Jugoslavia e che così a lungo era rimasto nel cassetto della sua camera di Roma, fino a quando la madre non decise di sostituire ai ricordi della sua infanzia una beautyfarm automatica di ultima generazione. E tutto finì nella spazzatura.
Se solo avesse saputo che quel microframmento del suo passato era lì. Ma soprattutto se avesse saputo le peripezie che ce lo avevano guidato: una volta e mezza il giro del mondo. Una impresa eroica fin dalla fuga picaresca dalla ciminiera dell'inceneritore all'Albuccione, la corsa a bordo della morbida gonna della tedesca in direzione di Pulau Penida (lei, la tedesca, non ci sarebe più tornata, delusa dalla vacanza mentre il destino volle che la seppia restasse lì quasi dieci anni), il tocco leggero dei piedi dei danzatori, disperso ormai fra i milioni di grani silicicicicicicicicicicicicicicicicicicici della sabbia. Fino a quando l'infradito gentile di una giapponese non decise di raccoglierlo e depositarlo al check-in dell'aeroporto di Bali. La corsa sul nastro. La folle amicizia con i frammenti di pesce secco incontrati per caso sulla borsa di kaimano dell'americano diretto a Francoforte. Il passaggio da una valigia all'altra, i lunghi voli nell'atmosfera fredda e stantia della stiva di due boeing nuovi di zecca… ed infine la planata libera sull'avenue Simon Bolivar diritto proprio nella sua barba.
Se solo avesse saputo.
Se solo avesse saputo quanto la sua idea di ordine contrastasse col caos calmo della sua barba.
Se solo avesse saputo quanti e quali equilibri avrebbe polverizzato il passaggio del rasoio affilato sulla pelle.
Qualcosa di simile ad una apocalisse, ma in forma di mentolo.
"Apocalisse mentolosa", l'avrebbe chiamata il pelo sfuggito all'altezza del pomo d'adamo.
Intanto, appena sopra la lampada accesa, una colonna di navi spaziali migrava verso l'alto. Nuvole rosa. Un bigbang di colore e riflessi.

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