Anfitrione e il suo doppio

scritto mercoledì 10 gennaio 2007 alle 17:32

E’ nel doppio che risiede l’essenza del teatro, tanto più che il doppio ha pesantemente influenzato, divenendo quasi un clichè, tutta la rivoluzione teatrale del Novecento. E di doppio viene ad occuparsi l’antichità fulgida di un testo come Anfitrione, che con notevole fortuna in tutti i tempi ha incontrato, a partire dall’originale plautino, la riscrittura di Molière e poi “per traslato” quella di Von Kleist.Ed è da quest’ultimo approccio che si muove l’Anfitrione, libero adattamento per mano della regista iraniana Shahroo Kheradmand, in cui a far la parte del leone è l’istrionismo sorprendente di Roberto Herlitzka.Il doppio e l’istrionismo: una combinazione fatale che mette in tavola le regole stesse della scena, restituendocele in un divertissement in lieve equilibrio fra il comico e l’aulico. La combinazione è fatta: sulla prospettiva di una scala simile a quelle adatte ai cavalli del medioevo (o della romanità), si consuma una vicenda astratta da riferimenti temporali, che evita di puntare a quell’universalità dell’antico tanto ostentata nelle rappresentazioni ipertecnologiche, “internettiane” del classico, appoggiandosi, con la non curanza della normalità, ad elementi del nostro tempo. Come a dire: se il tema del doppio si è annidato fra le pieghe dei secoli, imponendosi come catarsi costante delle cose secolaresche (nel nostro caso in quel della clonazione), non bisogna scartare l’ipotesi che tutto questo possa essere semplicemente una farsa plautina.E sembra di veder rivivere un pezzo del teatro che fu, attento alla dizione e all’espressione, ma aggiornato ad una sottile vena di contemporaneità, anche estetica, che permette ad un Anfitrione di parlare al cellulare.
La confusione dei personaggi che Plauto, Moliere, e Kleist hanno improntato per secoli in questo testo affascinante, emerge attraverso il confondimento di Giove ed Anfitrione, reso – a buon diritto con tutti i suoi interstizi umoristici – da Roberto Herlitzka, coadiuvato da una sequela di soluzioni sceniche e luministiche di lieve originalità.
Sarebbe inoltre un peccato non menzionare le pose cangianti di Reza Keradman (Mercurio), l’obliqua arguzia servile di Roberto della Casa (Sosia), la candida franchezza di Rossana Mortara (Alcmena) o le mosse d’astratta ritrosia di Patrizia Bettini (Caride), che hanno riportato alla luce quella combinazione triviale e sublime che Plauto per primo ha voluto regalarci.

Visto al Teatro Sala Uno – Aprile 2001

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