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Terre Natale – Ailleurs commence ici. Topografia dell’altrove.

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 Terre Natale - Ailleurs commence ici. Topografia dell’altrove.

Paul Virilio non è nuovo dell’ambiente. Anzi, è di casa.
Per la Fondation Cartier pour l’art contemporain aveva già pensato una mostra cruciale, Accidens, che sviluppava il tema dell’incidente come forma d’arte nelle civiltà della velocità, dell’ipertecnologia, del dominio mediatico.
In questi giorni Paul Virilio è ancora lì che passeggia e parla, passage d’Enfer, un budello ad appena qualche metro dalla sede della fondazione, stesso marciapiede, davanti al cimitero di Montparnasse. Tutto il giorno Paul Virilio cammina e parla e percorre il passage: ma è una luminescenza in proiezione perpetua al piano “Sous-Sol” della mostra organizzata stavolta con Raymond Depardon, fotografo e documentarista francese fra i più celebrati. Doppio titolo (o titolo e sottotitolo) per il duplice percorso che durerà fino al 15 marzo: “Terre natale – Ailleurs commence ici”.Terre Natale - Ailleurs commence ici. Topografia dell’altrove.
I temi sono quelli cari ai due organizzatori, che pur con le loro specifiche sensibilità, si fanno eco l’un l’altro in simmetria quasi perfetta. Al centro v’è l’idea di terra natale, polverizzata dalla globalizzazione, sia per gli occidentali – costretti per la prima volta a confrontarsi con la perdita di identità e tradizioni e col mondo rimpicciolito a colpi di comunicazione e supervelocità – sia per i “figli di un dio minore” che vedono progressivamente scomparire il loro spazio vitale, e i loro ecosistemi farsi sempre più piccoli.


La terra non basta! La terra brucia!

Per entrambi la terra sembra più piccola di prima. Ma si inizia con chi la terra e l’identità se le vede rubare. Sull’imponente maxischermo della grande sala, gira a loop “Donner la parole”, sequenza di ritratti girati in alta definizione, pillole linguistiche introdotte da giganteschi titoli rossi che segnalano il luogo e la lingua del parlante. Poi il breve monologo.
Sentiamo parlare in Kawésqar (Cile), Chipaya (Bolivia), Quechua (Bolivia), Mapuche (Cile), Afar (Etiopia), Occitano (Fancia), Bretone (Francia), Guarani (Brasile) e Yanomami (Brasile). Una sequenza di dettagli di volti parlanti che ammoniscono la civiltà di massa. Divinità primitive, elementari, pure, schiaccianti. Le dimensioni della proiezione ed il dettaglio del digitale a donare forza simbolica alle immagini.
Si prosegue con quelli a cui la terra non basta. Il limite della crescita infinita è solo la terra, che già progettiamo di abbandonare. Pianeta usa-e-getta, piccolissimo, minuscolo: il nuovo nomadismo ipertecnologico ci fa stare sempre a casa, il movimento è sempre più svincolato dalla proporzione geografica. Il mondo è un granello di sabbia.
Per la secondai installazione Raymond Depardon ha fatto il giro del mondo in 14 giorni, riproducendo una delocalizzazione paradossale per rapidità e simmetria degli scenari. Solo con la sua camera tascabile ha toccato Washington, Los Angeles, Honolulu, Tokyo, Hồ Chí Minh (già Saigon), Singapore, Città del Capo.
I video, divisi in giorni, sono proiettati su due schermi messi ad angolo. Riprese a camera fissa che osservano attonite lo scorrere delle auto, o la vita nelle strade commerciali. Da più punti di vista, in sincrono, fuori sincrono. Le città occidentali si replicano l’una nell’altra e finiscono con l’assomigliarsi tutte.


Altrove comincia qui.
E veniamo (torniamo) a Paul Virilio che cammina nel passage d’Enfer.
Il suo monologo ci introduce alle video-installazioni progettate da Diller Scofidio + Renfro.
Si parte da un dato di fatto: nei prossimi 40 anni duecento milioni di persone saranno costrette a migrare. È il più grande esodo a memoria d’uomo. Ed è già in corso.
Terre Natale - Ailleurs commence ici. Topografia dell’altrove.Vale la pena di riconsiderare, dice Virilio, le nostre immagini di sedentario e nomade. L’occidente ha inventato una nuova forma di sedentarismo in movimento, dove non esiste “altrove” pur in una prospettiva geografica virtualmente infinita, liquida e priva di frontiere. Il nomade è invece quello che è sempre da nessuna parte, cittadino di niente, nelle metropoli occidentali o nelle nuove megalopoli sottosviluppate.
Lo spazio geografico e politico come è stato inteso fino ad oggi, sparisce: la cittadinanza occidentale si espande e scontra con la finitezza del pianeta terra.
Il fenomeno è illustrato da una quarantina di monitor sospesi, che collaborano o si alternano nella proiezione di scene di migrazione registrate dai telegiornali: è l’attualità irriconoscibile delle scene di migrazione. Ma saremmo capaci di dire quali migrazioni? Identificare luoghi e scenari politici?
La seconda parte delle videoinstallazioni si caratterizza invece per il concept mediatico quasi invasivo. Su un maxischermo a 360° sono proiettati dati statistici, espressi con animazioni in grafica 3d di altissimo impatto visuale.
Temi affrontati: “popolazione e migrazioni urbane”, dove si espongono i dati della concentrazione urbana planetaria. Ricordiamo soprattutto che il 2007 è stato l’anno del sorpasso: quello in cui per la prima volta nella storia, la popolazione urbana ha superato, su scala planetaria, quella rurale. Cosicché oggi il 51% degli esseri umani vive in città.
In “Flussi di uomini e denaro” si mostrano le quantità di denaro spostate dai risparmiatori emigrati: le somme di quella economia informale creata da chi lavora in occidente ed invia sostegni alla famiglia d’origine. Come in un perfido contrappasso o gioco di vasi comunicanti, i proventi delle usurpazioni del “primo mondo” sul terzo mondo fanno il loro viaggio di andata-ritorno. E viceversa.
Segue una rappresentazione in tre dimensioni ed in scala temporale delle “migrazioni forzate e politiche”: uomini come sciami di pixel in movimento fra Rwanda, Arabia Saudita, Kosovo, Regno Unito, Messico, Stati Uniti, Russia. Qui alle andate seguono solo raramente i ritorni, ed i trasferimenti di massa descrivono lacci intercontinentali fra mondonord e mondosud. Stessa rappresentazione grafica anche per le migrazioni passate, presenti e future, legate agli squilibri climatici ed alle catastrofi naturali. Cifre impressionanti, già triple rispetto alle masse in movimento per lo stesso motivo alla fine degli anni ’90.
Infine “Mari che salgono, città che scompaiono” proietta il livello del mare da qui al 2100: i nomi delle città si dispongono su un mappamondo virtuale e poi si espandono sull’orizzontale dello schermo a 360°. La scala temporale indica lo scorrere del tempo e le città migrano sopra e sotto l’equatore del limite di sommersione.
Per noi a dir poco amara la sparizione del litorale laziale e dell’Italia tutta (o quasi).
Fine. O meglio inizio. Perché le immagini di Terre Natale sono un terreno di coltura ideale per le cellule celebrali; incidono la mente e lasciano un solco profondo atto ad ospitare fertilissimi pensieri di scienza politica, anche a chi non mastica la materia.
Solo una cosa ci sentiremmo di imputare al duo Virilio – Depardon, e cioè la sparizione del local nella loro analisi del global. Sembra un ritornello, ma è efficace per dire che nella loro analisi non v’è quasi traccia delle migrazioni che travolgono l’Europa. È un effetto, forse, di quella tara alla centralizzazione, croce e delizia della Francia. Per cui, poco spazio alla disperazione del mediterraneo ed un occhio sugli “altrove” più prossimi alla Francia o agli Stati Uniti, per storia, indoli o colonialismi.
Ma non proprio per prossimità geografica.

l’ambiente? una sfida industriale (fine)

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copyright rk22.com - ambiente, sfida industriale

La tecnologia è conoscenza conseguenziale. Quindi consecutiva. Quindi assoluta ed unidirezionale.
La tecnologia non si sazia: essa pone domande sempre nuove alla conoscenza scientifica che la serve. Ma è solo un’illusione pensare che tali domande esistano a priori, perché esse sono generate dal processo stesso di avanzamento del Logos.
Con il sapere scientifico e la tecnologia ci saranno sempre domande. Ed ogni risposta sarà funzionale alla formazione del sistema e alle domande che costituiscono la base della scoperta di nuovi principi di SOSTEGNO.

Quale sarebbe allora la soluzione tecnologica per l’ambiente?
Reversibilità ed annullamento dell’impatto sul clima.
Ogni emissione reversibile e riassorbibile. Più la tecnologia sarà reversibile, più essa diventerà irrinunciabile ed invisibile.
Più la tecnologia sarà invisibile più essa inciderà nella Kultur, nella formazione spirituale dell’uomo, convertito in macchina cui sia necessario il sostegno.
Ma l’uomo non era di per sé sostenibile, prima dell’era industriale?

Immaginiamo per un istante un mondo in cui ogni mezzo tecnologico possa essere impiegato senza danneggiare l’ambiente. L’impatto ambientale pari a zero, la tecnologia avrebbe un effetto concreto e totale solo sulle nostre coscienze, annullando ogni limite alla sua applicazione in ogni area ed attività umana.
Una tecnologia completamente solidale con “l’environnement” ne è il superamento e rappresenta la rinuncia totale alla dipendenza dall’ecosistema.

In un mondo a fusione fredda, ove l’energia sia pressoché inesauribile chi si preoccuperebbe del suo uso?
In un mondo dalle risorse perpetuamente rinnovabili chi si preoccuperebbe dello spreco?

In un mondo in cui la biotecnologia possa essere una risposta affidabile alla lotta contro la fame e con modalità del tutto ecocompatibili sarà ancora possibile porre una questione etica su senso e i modi del consumo?
Esisterebbe ancora, in questo mondo futuribile, il senso di vulnerabilità dell’uomo rispetto all’assoluto?
Non è forse questa nuova sfida tecnologica l’ennesimo tentativo di sostituire il Logos ad ogni aspetto della vita dell’individuo?

Sogniamo assieme questo mondo e vediamo che in esso non esistono più limiti all’operato della tecnologia: se l’inquinamento ed il danneggiamento diretto dell’ecosistema sono oggi freni potenti per la crescita e lo sviluppo, dove vorranno arrivare, infine, una crescita ed uno sviluppo ad impatto ambientale zero?

Far considerare l’ambiente come una sfida industriale è un astuto depistaggio della domanda più importante: se sia cioé lecito fare della velocità e della delocalizzazione le chiavi di volta della civiltà del futuro.

Se un’autovettura viaggiando alla velocità di 280 km/h consuma troppo dobbiamo chiederci come ridurne i consumi con complessi apparati meccanici, oppure dobbiamo interrogarci sulla effettiva necessità di viaggiare da Roma a Milano in due ore?
La domanda è tutta qui.
Questo sistema globale che vive all’istante e che non sa più misurarsi con la sua memoria analogica, complessa, multidirezionale, associativa, rappresenta davvero un avanzamento rispetto al passato?
Cosa ci impedisce di pensare che le società della lentezza, in cui fini e scopi dell’essere umano sono legati a ritmi stagionali ed in cui i sistemi di valori tradizionali sono finalizzati in sé allo sviluppo organico con la natura, abbiano un valore aggiunto rispetto alla fatuità dei nostri consumi?
La crescita individuale ritardata che oggi l’individuo esperisce nelle nostre società si deve in larga parte alla specializzazione dei saperi per i quali è necessario un maggiore periodo di apprendistato.
Ma il sapere specifico non è sapienza, che al contrario è sapere universale.
Ciò significa che il ritardo dello sviluppo individuale, nella formazione della famiglia, ad esempio, è strumentale alla tecnologia, non all’uomo, che “au contraire” perde sempre di più le proprie conoscenze per sostituirle con nozioni che servono ad esaudire precisi scopi e direzioni tecnologiche ed ad inserirlo nella società come funzione e tassello di una macchina produttiva.
Le civiltà del passato davano maggiore valore alla sapienza, che si componeva innanzi tutto di un sistema etico, volto alla conservazione della specie in senso naturale, davvero ecocompatibile.
Era questo il ruolo della memoria analogica e della formazione etica e sociale.

A Belleville per la strada qualcuno ha scritto “on ne peut pas tomber amoureux d’un taux de croissance”: il pericolo primario delle nuove ideologie del progresso non è la possibilità di distruggere o meno l’ecosistema, perché – lo abbiamo visto – tale questione è fortemente relativa da un punto di vista non antropocentrico (e cioé da un punto di vista puramente biologico) e soprattutto perché la tecnologia sarà in grado di risolvere ogni sfida ambientale se in essa si dovrà decidere della propria autonomia e sopravvivenza.
Il pericolo primario del mondo che ci stiamo costruendo intorno è la deformazione della coscienza e l’abbandono degli antichi sistemi etici, per una esistenza tutta declinata al futuro ed alla velocità.
Bisogna chiedersi se valga davero la pena di costruire i mezzi adeguati al mantenimento di un modo che vuole rinunciare completamente all’ecosistema ed all’etica del risparmio ad esso connessa, per consentire lo sviluppo di una nuova natura ibrida, mezza uomo e mezza macchina, in cui anche il pensiero sia conforme alla rapidità ed alle ambizioni della logica, capace di abbandonare il pianeta, ed essere così ovunque per scoprire di non essere da nessuna parte.
Di non essere più uomo.

Damiàn Ortega al Pompidou. Rivoluzione impressionista.

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Cosmic Thing, 2002
La fine dell’esposizione che abbiamo visto al Centre Pompidou dedicata a Damiàn Ortega è lo spunto per affrontare l’attività di questo eccezionale artista, ma anche il punto di partenza per una riflessione sull’attualità del motivo impressionista nell’arte “ultra-moderna”. Visto attraverso il “Campo di visione” dell’artista messicano, il problema della percezione sollevato alla fine del secolo XIX dagli impressionisti sembra essere ancora il brodo primordiale delle avanguardie che si spingono sul campo della critica della società della comunicazione.

Ortega, prima di tutto.
champ de visionL’installazione presentata al Centro Pompidou dal 13 novembre al 9 febbraio, intitolata “Champ de vision” si apre con un cartone a matita in cui la tavola periodica degli elementi di Dimitrij Mendeleev è rappresentata a spirale, dall’idrogeno, posto al centro, fino agli elementi più complessi. Così come sono disegnati da Ortega gli atomi rispondono alle teorie dei quanti: sono composti da due lastre circolari, inserite perpendicolarmente l’una nella metà dell’altra, come due monete fuse assieme.
Il cartone introduce al secondo ambiente, una stanza di duecento metri quadrati dove le stesse molecole, realizzate in plexiglass di quattro colori differenti, sono sospese nel vuoto; ancorate a dei fili di nylon trasparente formano 12 barriere.
Il visitatore è invitato ad attraversare le intercapedini di questa nuvola di molecole trasparenti in CMYK.
Sembra di attraversare un gas visto al microscopio a scansione.

Una questione di colore.
È una riproduzione della materia ingigantita fino all’atomo. Ma ci si accorge quasi subito che la sospensione delle molecole deve rispondere ad una qualche logica ottica.
Ogni filo di nylon ripete un ordine sempre diverso, ma in qualche modo simmetrico. I colori impiegati sono gli stessi della riproduzione del colore in tipografia. Ciano (C), Magenta (M), Giallo (Y), Nero (K): quadricromia. La trasparenza del plexiglass consente la sovrapposizione del colore.

Il pixel o la pennellata impressionista.
champ de visionIntercapedine dopo intercapedine le molecole si restringono. Il piano di riflessione della luce si riduce, come a descrivere due linee di fuga prospettica. Dietro un muro, infine, si può osservare la nuvola multicolore da uno spioncino.
Ma l’immagine complessiva qui si condensa in uno sguardo. All’occhio è restituita l’immagine di un occhio, di tanto in tanto attraversato da un visitatore.
Ortega ha usato gli stessi principi dell’impressione ottica studiati dalla pittura impressionista, per cui la luce è somma di un insieme di singole impressioni sensoriali della retina. Ma se in quella pittura positivista il processo rimaneva ancora sostanzialmente artigianale, con la stampa serigrafica la tavolozza ottica si riduce a quattro elementi.
Infine, nella rappresentazione ipermediale (che emette luce) la tavolozza si riduce ulteriormente a tre colori. Il rosso, il verde, il blu: RGB.
Questa riduzione ad infimo ha una portata fortemente simbolica; è una questione semantica, dunque strettamente collegata all’idea di codifica del mondo attraverso un linguaggio.
“Parlare il mondo” non è percepirlo passivamente, ma interpretarlo.
champ de visionLa weltanshauung (ed in particolare quella delle nostre società, votate alla comunicazione assoluta e mediata) si esprime anche e soprattutto nella forma del linguaggio. Del resto, tornando al problema della frammentazione dell’immagine tipografica in quattro singoli colori, questa osservazione della realtà in quadricromia non era sfuggita alla pop-art, che la immolò a simbolo stesso della cultura di massa.
champ de visionMa il gusto pop caratterizza l’attività anche precedente di Damiàn Ortega, che per la Biennale Arte 2003 sospendeva con gli stessi fili di nylon un maggiolone completamente smontato, “esplodendolo” in guisa di manuale di montaggio a dimensioni reali e tridimensionali.
In “Campi di visione” con linguaggio ancora pop, ironico ed irriverente, Damiàn Ortega non realizza solo l’ingigantimento al microscopio della materia, ma espone in un colpo una buona parte delle declinazioni specifiche della weltanschauung occidentale.

La realtà come gas. Filosofia interminabile dell’indeterminabile.
In fisica si osserva la progressiva sparizione della materia corpuscolare, per cui un oggetto (l’occhio della mostra), è la somma non solo di una quantità di atomi elementari, ma anche di una serie di vuoti.
Le più recenti teorie fisiche sulla struttura della materia si concentrano sull’indeterminazione: la materia è descritta più come una nuvola gassosa, (o come “corde” vibranti), che come insieme retificato e più o meno gerarchizzato di molecole.
Gli atomi sono così sempre “delocalizzati”, ovunque ed altrove, in perpetuo movimento.
La visione della materia della nostra società liquida sembra distante anni luce dalla gerarchizzazione delle molecole, immaginata invece dalle società che produssero anche i grandi stati burocratici.
La riduzione della materia a molecole sempre più elementari ed ineffabili è l’altra faccia della scatola ottica dalla quale il razionalismo osserva il mondo. La corsa ad infimum diventa una corsa ad infinitum, ciclo di riduzione perpetua ed incessante in cui la materia esplode, fino alla sua totale ineffabilità.
O fino ad ingoiare il mondo che conosciamo, lo spazio ed il tempo, come alcuni vorrebbero accada al CERN di Ginevra.
« […] Esistono delle vaste superfici bianche o vuote nel mezzo di una immagine apparentemente satura di colore. Si può osservare lo stesso fenomeno per gli oggetti solidi. Se si guarda la loro composizione molecolare, si scopre una grande quantità di vuoto fra gli atomi che lo compongono. Come può un oggetto esser solido e duro se contiene tanto vuoto? Ciò si deve al fatto che i suoi atomi sono costantemente stimolati e muovendosi formano un campo di tensione. Per illustrare mentalmente questo fenomeno, ci si può servire dell’immagine di una palla in gomma legata all’estremità d’una corda, che giri vorticosamente attorno ad un asse. Se siamo incapaci di dire dove si trova di preciso la sfera, è altresì possibile stabilirne il perimetro di rotazione. »
(Estratto dell’intervista a Damiàn Ortega di Anna Hiddleston e Sinziana Ravini, traduzione mia, n.d.r.)
Analoga la concezione contemporanea della percezione ottica, che nei suoi aspetti fisiologici e cognitivi è descritta come una sorta di processo di elaborazione digitale. Le frequenze luminose sono porzioni minime di stimoli: la scomposizione della luce in trame elementari porta con sé la possibilità di riprodurla attraverso algoritmi matematici.
L’immagine diviene informazione e segnale: “piège visuel”, essa si conforma alla tendenza di tutti i linguaggi contemporanei. Anche nel web semantico il messaggio e la sua fonte sono sempre più indeterminati: esistono ovunque e da nessuna parte. E la cosa riguarda sia il messaggio in sé (la provenienza e la tipologia dell’informazione sono sempre più indeterminabili) che il supporto di lettura (per il momento gli schermi) ma anche il supporto fisico in cui esso è registrato: insieme di sequenze elementari di codici, stivate ovunque e da nessuna parte, svilite del loro valore specifico.
Uomo de-localizzato come la materia che immagina e vede. La replicabilità infinita del messaggio contribuisce paradossalmente alla sua dispersione.
Per tornare al sistema delle arti, facciamo un’ultima considerazione: la scatola ottica in cui è confezionata l’installazione di Ortega è ispirata ai principi dell’ottica rinascimentale. Il che sposta indietro ancora nel tempo il limite di inizio del movimento di sintesi razionale della sfera cognitiva.

l’ambiente? una sfida industriale (parte III)

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broceliande II - copyright artMobbing @ rk22.com
Ed allora l’emergenza ambientale, in questo sistema che tutto ingloba e tutto rende complementare a sé, è una sfida industriale.
NON ne va della sopravvivenza degli abitanti del mediterraneo o della Birmania, NO, ne va soprattutto della resistenza dell’industria e della conservazione (e dell’ampliamento) di specifici stili di vita.
Ne va della crescita.
E l’ambiente diventa prodotto vendibile.
La tecnologia si schiera a suo favore per salvarlo.
E magari ci riuscirà anche, perché nella sfida ambientale è in gioco lo sviluppo, quello stesso sviluppo che fa rima con tecnologia.

Nanoparticelle puliranno sangue e tessuti umani dal PCB che vi si è depositato.
Nuovi filtri per le nostre antiquate vetture a combustibile fossile impediranno il rilascio di carbonio e anidridi nell’aria.
Un motore perfetto, pulito, all’idrogeno, emetterà solo qualche litro di vapore acqueo per portarci da Monaco a Mosca.
Le case produrrano energia autonomamente, grazie all’aiuto di speciali vernici in grado di convogliare l’energia solare direttamente nel forno a microonde.
Città coimbentate in grado di produrre metano e concime.
Altre città che respingono il carbone sotto la terra, avvalendosi di piante geneticamente modificate, in grado di assimilare anidride carbonica e di stoccarla da qualche parte, nel citoplasma cellulare e poi nella terra.

Una tecnologia che costi il meno possibile per la collettività e che si sviluppi in rapporto simbiotico con il nostro environnement.
Tecnologia trasparente, e sempre più necessaria. Se la sfida dell’ambiente verrà risolta di peso dalla tecnologia l’uomo avrà con essa un rapporto ancora più simbiotico.
La tecnologia sarà sempre più biologica, nel senso che si costituirà come sostegno al naturale meccanismo dell’evoluzione.
E’ questa la spinta ultima e definitiva: una tecnologia che si sviluppi in seno ed in qualità di ETICA.

Ma bisogna pur sempre considerare che gli scopi della tecnologia non sono gli stessi dell’ecosistema.
La tecnologia non tollera adattamento e non prevede vie di uscita secondarie: essa marcia in linea retta (per buona pace della serendipidità) e non può accettare dietrofront.


Ogni processo tecnologico è irreversibile: e la tecnologia è sempre in moto per trovare soluzioni che risolvano e favoriscano (RISOLVANO E FAVORISCANO) il suo avanzamento.
Il principio che la informa è la velocità.
Il mondo che la tecnologia immagina oggi è un mondo sostenibile.
Ma soffermiamoci un secondo sul concetto di sostenibilità.
Cosa significa sostenibilità?

Si sostiene qualcosa che è pesante. Si sostiene una pianta di pomodori che abbiamo obbligato a svilupparsi in verticale e che per questo si espone maggiormente al sole producendo una massa di frutti ben superiore alla capacità naturale di carico del suo fusto. Si creano legacci e corde. Poi quando la sostenibilità primitiva non è più sufficiente si cambia il terreno e lo si rende più solido, si modificano le radici e se ne incrementa la profondità.

Si sostiene un consumo sproporzionato, perché un consumo normale è lento ed orizzontale e non ha bisogno d’essere sostenuto da nessuno.

l’ambiente? una sfida industriale (parte II)

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il ruscello delle fate - brocéliande - copyright artMobbing @rk22.com
La biodiversità e la selezione naturale prevedono il cambiamento climatico e ne sono figlie.
Senza variazioni più o meno brusche del clima non esisterebbe la varietà sconcertante della vita sul nostro pianeta.
E senza la coesistenza di questi due dati non si verificherebbe l’evoluzione, che non è un fenomeno graduale, ma improvviso, dal momento che secondo l’evoluzionismo classico la variante genetica è sempre netta.
Il cambiamento climatico è un fatto fisiologico.

Tanto più che l’attività umana si somma solo ad un trend di riscaldamento naturale, rispondente alla più o meno regolare ginnastica praticata dalla nostra beneamata terra.
Ginnastica dilatatoria: il bordo di gas che ci protegge dal vuoto assoluto del cosmo aumenta e diminuisce la sua temperatura. E pulsa su archi di tempo che i nostri calcolatori riescono a malapena ad ipotizzare.
La sfortuna è stata semmai quella di fare la rivoluzione positivista proprio in un momento di punta del riscaldamento naturale: se il processo d’emissione di CO2 fosse cominciato durante la discesa naturale delle temperature avremmo forse considerato l’inquinamento come il cuscino tiepido per conservare la specie?
Una manna offerta dalla tecnologia e dai consumi.

Improvvisamente, dopo anni di smaccato disinteresse, l’emergenza climatica entra nel centro dell’occhio dei media.
Il mondo occidentale punta i riflettori sul fenomeno e quello finalmente ESISTE.
E nulla nei media è relativo.
Ma perché ora?
A chi fa male il riscaldamento climatico?

«L’environemment est un défi industriel»
(spot Veolia)

Per il momento esso fa male soprattutto ad alcune popolazioni più esposte (per povertà o posizione geografica od organizzazione urbanistica o per tutti questi fattori assieme). Cicloni, catastrofi climatiche d’ogni genere e dimensione affliggono oggi un po’ tutte le aree del pianeta, ma colpiscono solo ove non esistano i mezzi per prevedere il cataclisma o – come nel caso della Birmania – quei luoghi ove l’informazione sia guidata più che altrove da un regime autoritario che omette e nasconde anche la morte.
In futuro esso coinvolgerà fasce sempre più ampie della popolazione globale.
Soprattutto, però, il riscaldamento climatico ed i disordini stagionali ad esso conseguenti, faranno molto male all’industria globale, che vede già le grosse perdite di capitale che uno stravolgimento radicale del clima potrà apportare.
Approvvigionamenmto energetico ed idrico.
Spostamento degli stabilimenti industriali.
Cambiamento delle regole della economia locale e globale.
Perdita dei vantaggi connessi alla delocalizzazione della produzione.
Come pensiamo di produrre ancora pupazzi in plastica e processori al silicio se fra Hong Kong e gli Stati Uniti ogni trasporto via mare sarà impossibile per sei mesi l’anno?
Il sistema non può tollerare che i tornado devastino stabilimenti petroliferi o danneggino centrali elettriche e stabilimenti chimici.
O che essi distruggano strade, ferrovie o punti nevralgici di smistamento commerciale.

Intollerabile.

gelatina & fotoni: ancora arabi [fine]

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gelatina & fotoni: senza titolo. Senza immagine.
SENZA IMMAGINE

Già.
Perché capisco che ora, a questo punto della storia, quando intorno a me ci sono dieci persone e nessuno nella rue faubourg du temple che si ferma.
Perché capisco che ora.
Proprio ora.
Devo togliere la pellicola amata dalla macchina fotografica.
Lanciarla in terra.
Perché quelli come animali ci si gettino sopra.
E perché io possa finalmente mettere le ali ai piedi.
Ed ascoltare gli insulti da lontano, ancora.
Tu che sei voleur.
voleur e rittal.

E penso.
Penso solo che gli arabi mi stanno ancora simpatici.
E penso anche che ovunque io abbia rubato foto, nei paesi arabi, ho sempre trovato gente pronta a regalarmene.
Penso ai volti che scorrono in sequenze di bit nella mia macchina.
Volti che mi hanno aperti a pose e sorrisi.
Quasi mai in cambio di qualcosa.
Eppure erano marocchini, siriani, giordani, afghani, turchi, egiziani, berberi.
Sono entrato in una moschea sciita.
Ho preso in foto la gente che pregava. Mi hanno lasciato fare.
Mi hanno sorriso.
Cosa c’è alle radici dell’integralismo
?
L’Impero.

Quelli incontrati a Parigi non erano figli di Allah, erano figli dell’impero.

impero luminescente.
televisivo.
digitale.

carrefour o ambasciata di francia?

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london calling (to buy) - copyright artMobbing @rk22.com
Qualche settimana fa in Cina si è protestato davanti ai Carrefour. La ragione della protesta tutti la sanno: la Francia non avrebbe fatto abbastanza per salvare la fiamma Olimpica al suo passaggio a Parigi. In più, i parigini sarebbero rei d’avere concesso la cittadinanza onoraria al Dalai Lama.
Tutti lo sanno, tutti ne hanno parlato.
Nessuno si è però stupito che tali legittime manifestazioni di dissenso si siano scatenate davanti ad un supermercato. Come se Carrefour rappresentasse la Francia, paese che peraltro siede con diritto di veto alle Nazioni Unite.
Se cominciamo ad accettare questo, credo che non avremmo difficoltà in futuro a far emettere il nostro certificato sanitario da McDonald’s, a sostituire il ministero delle politiche agricole con Monsanto, a far rilasciare i nostri passaporti direttamente da Facebook.