la biennale secondo castellucci

scritto venerdì 13 ottobre 2006 alle 20:10

immagini della biennale di castellucci

Il Festival Internazionale di Teatro della Biennale di Venezia è terminato il 25 settembre, ma è impossibile arrivare ad un bilancio generale della rassegna, quest’anno sotto l’egida del regista Romeo Castellucci. Si è trattato di un cartellone complesso, pensato come successione di suoni, immagini e poche essenziali parole, a rivendicare il ruolo del teatro nell’esplorazione della realtà. Ecco allora la scomposizione delle risorse espressive della scena in spettacoli concepiti come capitoli di un unico “romanzo della polvere”. Un’operazione non solo espressiva, ma ontologica, dove la riscoperta del teatro non viaggia sui binari dell’etica o della politica, viste come rotte di sicuri naufragi, ma impone una visione molecolare della realtà. È questo il senso del gioco perverso di C. Jamie e K. Haino, che sfidano lo spettatore a seguire lo squallore del nazionalismo americano e francese in uno spettacolo prepotente come una bestemmia. Sotto i colpi di un’assordante musica noise, la pulzella d’Orleans sfila davanti ai McDonald’s francesi e le patate fritte “alla Giovanna d’Arco” si ricompongono nelle violente moviola delle gare di ingestione americane. La visione è un attacco allo stomaco, espressione di un terrore perturbante e nichilista.
La scena allora è un microscopio sulla sostanza delle cose. L’ingigantimento della prospettiva diviene la dominante di tutti gli spettacoli: performance, video, teatri immateriali, visioni; un non-teatro impegnato nel cogliere effetti e suoni del citoplasma cellulare, così come Cindy Van Acker, artefice di una coreografia basata sull’elettrostimolazione dei nervi crurali o come la “Sonusphere” di Bain che trasforma in moto le impercettibili onde sprigionate dal pianeta terra.
Bilancio impossibile, allora, perché questa biennale teatro è stata un unico spettacolo a firma collettiva, in una concezione della visione come insieme organico e cangiante di esperienze. Avviene così in “Orthographe” che una scatola ottica isoli le azioni degli attori in immagini evanescenti e rarefatte. Una parte per il tutto: spettacoli che non sono più tali, ma frammenti di una architettura complessa ed imprendibile. Spettacoli che rinunciano al linguaggio per manipolare la percezione. Operazione totale e senza compromessi, che da una parte rifiuta la concezione della rassegna come florilegio di eventi, e dall’altra nega autonomia al singolo spettacolo. Si spiega allora “Weather report” di Chris Watson, in cui al pubblico si chiede di restare per più di un’ora ad occhi chiusi, ad ascoltare il suono di intere stagioni condensato in 18 minuti: il ghiaccio in formazione o il ruggito di un leone stimolano la ricostruzione mentale della realtà in cui l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande si sfiorano. Addirittura potente il gioco fra suoni e visioni di Binkert e Gibbons che in “Flame tornado” mostrano un vortice di fiamme alto più di dieci metri, in cui l’energia è associata a suoni elettronici, mescolati a quelli naturalmente prodotti dalla colonna di fuoco, amplificati ad evocare terrori e riti primitivi o postmoderni. Tutto deve cedere al fascino dell’ispezione microscopica. Il caleidoscopico non-teatro di Castellucci si trasferisce anche in cucina: fra gastronomia moderna e contemporanea, sapori e spazi si intrecciano ai suoni della cucina, trasmessi in filodiffusione nell’area ristoro. A rivendicare ancora una volta che il teatro è una rotta fra tante nella nostra percezione, ma – forse – la più potente.

Vista a Venezia – Settembre 2005

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