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Treni(talia): il conto della serva ed il diritto di circolare

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tgvRapid
Da un po’ di tempo vorrei andare a Torino, per gustarmi la rinnovata GAM e per scorrazzare fra i vicoli del San Salvario e comprar formaggi dalle parti di porta Palazzo.
Voglio andare a Torino, insomma.
Stamane ho consultato il sito di trenitalia per prenotare un viaggio in largo anticipo.
Scrivo, Roma-Torino. Scrivo andata 4, ritorno 7 febbraio. Un weekend lungo, come si dice.
Se volessi viaggiare rapido e comodo dovrei optare per una soluzione freccia rossa che in 4 ore e 15 minutiprimi dovrebbe lasciarmi a porta nuova, per la ragguardevole cifra di 93€ in seconda classe sola andata. Altrettanti denari dovrò esborsare per il ritorno, raggiungendo la quota di 186 euro, se la matematica non mi inganna.
La soluzione più economica sarebbe evitare il frecciarossa e sorbirmi le 8h 30 di percorso dell’intercity notturno, che nella sua classe unica seconda (legittima reale?) mi costerebbe 39,50€. Il che fa 80 euro per ben 17 ore di viaggio (8h30minutiprimi, sempre che tutto vada bene, e di solito niente va bene).
Parliamo di una distanza automobilistica di 700km circa e di un anticipo di prenotazione di circa due mesi.
Al che, mi sono ricordato di Marsiglia, e di Lione.
Lione fu il mio primo TGV. Il battesimo del TGV.
Ricordo ancora la figura da ragazzotto provinciale che feci, quando mi presentai la notte di quel 10 novembre a casa dei miei amici per partire all’indomani mattina.
Avevo una cesta di panini.
Abituato come ero alla tratta Roma-Milano in intercity, e dato il prezzo pagato, mi attendevo sei ore di tragitto.
Il viaggio dura due ore scarse, mi spiegarono. E risero della mia tasca di panini, che furono divorati la notte stessa, mentre vegliavamo per l’attesa partenza.
In Italia sembra proprio che il panino bisogna portarselo ancora, soprattutto per non aggiungere agli 80 euro dell’intercity i dieci per panino e bibita.
Nel paese della gastronomia.
Poi venne Marsiglia: circa 770 km di distanza stradale divorati in TREORETRE.
Aspetta. Roma-Torino. Parigi-Marsiglia. Quasi un percorso equivalente.
Divento verde.
Grigio.
Rosso.
Le vene mi spuntano dal collo.
E mentre faccio fumo dalle orecchie digito http://www.voyages-sncf.com, il sito della rete ferroviaria francese.
Scrivo, Paris-Marseille. Scrivo andata 4 febbraio, ritorno 7.
Qui le opzioni non riguardano il tipo di treno, che è sempre il superrapido TGV, ma la tariffa.
Eh si, perché se sono disposto a trovarmi alla gare de Lyon ben mattiniero, alle 7:15, il prezzo sola andata è di 22 euro, per tre ore di percorrenza.
Ma se sono più pigro… è uguale, perché alle 8:16 ho un altro treno veloce, sempre a 22€, come quello dell 10:15 del mattino, del resto, preceduto da due CARISSIMI “prem’s” à 25€. E per il ritorno le tariffe sono analoghe. Il che mi fa spendere massimo 50 euro per una andata ritorno Parigi-Marsiglia, che fra l’altro rispetto al trenitalico Roma-Torino fa 140km complessivi in più.
E mi scuso infinitamente col lettore per questi conti della serva, sperando che egli sappia trarne le giuste conclusioni sul senso dello sviluppo, sul ruolo dei trasporti nella vita d’un paese civile, sul valore che un popolo dovrebbe dare alla propria capacità di mobilità interna.
A proposito… nelle spese per il TGV è inclusa anche la spedizione (gratuita) del biglietto a casa mia.
Peccato solo che io voglia andare Torino.

AIDS: passate col rosso

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Visto che l’articolo era lungo e visto che ieri, in occasione della giornata rossa contro l’AIDS nessuno ne ha parlato, credo che sia il momento giusto per rilanciare qui Duesberg, e ricapitolare in qualche punto perché bisogna diffidare della teoria AIDS / HIV.
1. L’AIDS come malattia esiste, non è questo che si nega bensì la relazione fra la sindrome e l’HIV;
2. I test anti-HIV non provano la presenza del virus nell’organismo, ma (a) o ne identificano alcune sequenze genetiche nelle cellule del presunto ospite, (b) oppure cercano gli antigeni nel sangue. Chi si immagina che la sieropositività sia verificata con la vista “corpuscolare” dell’HIV si sbaglia: il virus non viene isolato in nessun test.
Inoltre la positività al test inducendo nel paziente uno stato di ansia e terrore potrebbe essere una delle cause del deficit immunitario. Per questo l’associazione “Alive and well” SCONSIGLIA di fare il test HIV. Insomma, non date retta a Mastrandrea;
3. L’AIDS, se fosse un’infezione dovuta ad un microorganismo, dovrebbe rispettare i postulati di Koch, che invece non rispetta;
4. La sieropositività è trattata con un farmaco chemioterapico, l’AZT, che sembra abbia effetti letali proprio sul sistema immunitario;. Una recente proposta delle case farmaceutiche vorrebbe impiegare l’AZT anche per il trattamento della cosiddetta sindrome dello yuppie;
5. A differenza delle malattie contagiose e dovute a microorganismi l’AIDS colpisce specifiche fasce della popolazione. Esistono inoltre tre tipi diversi di AIDS, strettamente legati alla geografia: si parla di AIDS africana, occidentale, asiatica.
6. Una relazione fra HIV e AIDS è indimostrabile. L’HIV potrebbe essere solo un microorganismo parassita, indirettamente legato alle immunodeficienze.

Peter Duesberg. Photo by Robert Holmgren/ZUMA Press. © 2003 - Robert Holmgren

Peter Duesberg. Photo by Robert Holmgren/ZUMA Press. © 2003 - Robert Holmgren

Secondo Duesberg ed altri illustri immunologi, virologi e genetisti, l’AIDS sarebbe legata a fattori ambientali, in particolare all’esposizioni ad agenti chimici, come alcune droghe e l’inquinamento.
L’immunodeficienza è inoltre legata agli stili di vita, allo stress, all’inquinamento.
Era così per i primi gruppi in cui venne diagnosticata (omosessuali di san francisco esposti al consumo di stimolanti e ad una vita sessuale particolarmente intensa) e continua ad essere così per una malattia il cui agente patogeno sembra “discriminante”, colpisce cioé solo determinate fasce della popolazione.
L’ipotesi Duesberg non passa alla radio ed alla TV perché è molto più facile e compatibile col sistema prendersela con un microorganismo altro da sé che con gli stili di vita, cui sempre di meno riusciamo a rinunciare.
L’edonismo delle nostre civiltà occidentali, la denutrizione dei paesi del terzo mondo, l’inquinamento, l’esposizione ad agenti chimici, lo stress da lavoro; sono questi gli squilibri che provocano l’AIDS.
Ma la vendita dell’AZT è un business ghiotto, ghiottissimo, per i grandi Trust farmaceutici.E ieri, con la celebrazione del rito collettivo della grande giornata rossa dell’AIDS, abbiamo visto come le televisioni includano nel pacchetto pubblicità anche lo spazio telegiornalistico. Nessuna citazione della questione Peter Duesberg né di Kary Banks Mullis (nobel per la chimica).
S’è preferito parlare delle soubrette e delle cantanti che si vestono di rosso e fanno solidarietà in giro per il mondo.
Ma intanto nessuno s’è chiesto: perché abbiamo una giornata dell’AIDS, malattia che totalizza 2milioni di morti l’anno, ma non esiste una giornata contro la diarrea che di morti ne produce altrettanti, o, peggio, contro la fame nel mondo, che si calcola sia il principale agente patogeno del pianeta?

il film “The other side of AIDS” in versione integrale su google video
La questione del negazionismo

Roma: la pittura di un impero. Nascita dell’Europa.

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roma-pittura
L’Impero Romano è stato ed è per l’Europa una sorta di ossessione geopolitica. La sua nascita e disgregazione ha avuto conseguenze sulla forma mentis e sulle strutture stesse del potere europeo, sempre dilaniato fra l’idea di unità universale e le differenze linguistiche e culturali.
Differenze delimitate proprio dall’incontro dell’Impero con le popolazioni autoctone e dal complesso cammino di dominio e sottomissione, integrazione e avanzamento tecnologico, che tutti i popoli (italici prima che europei) hanno vissuto al passaggio dei latini.
Le radici romane dell’Europa e della modernità intera, possono essere riscoperte in questi giorni e fino al 17 gennaio, proprio nella capitale, alle Scuderie del Quirinale che celebrano il loro decennale con la mostra “La pittura di un impero”, curata da Eugenio La Rocca ed affidata alle cure scenotecniche di Luca Ronconi e Margherita Palli.
Siamo partiti dall’ossessione imperiale dell’Europa, perché il percorso fra le cento opere in mostra ci parla del primato della pittura romana nella definizione stessa dei confini, degli obiettivi e delle forme dello stile moderno.
In questi affreschi ed encausti v’è già tutta la storia dell’arte del vecchio continente. Dal Rinascimento all’Impressionismo, dal Bizantino alla pittura industriale, la storia dell’arte imperiale sembra ripercorre le stesse tappe che dalla maniera moderna portarono all’Espressionismo.
Se il I stile imperiale si richiama esplicitamente alle suggestioni dell’arte greca, concepita come modello di equilibrio e grazia, ben presto vediamo i pennelli di questi anonimi pittori latini, approdare ad un più spiccato gusto per la stranezza e l’insolito, per poi spingersi nelle pieghe del sentimento e dell’esagerazione emozionale, con i possenti encausti delle province desertiche dell’impero.
Vi si riconoscerà la parabola del Rinascimento, il quale dalla compostezza palladiana, scivolava via via verso l’ibridazione delle forme e degli stili, fino al manierismo, ed agli articolati “trattenimenti” del Barocco. Dal I al IV stile pittorico come un cammino che ci guida da Palladio all’Arcimboldo.
Questo strettissimo rapporto di continuità – anche “evolutiva” – della pittura romana con la rinascita dell’arte nella maniera moderna – che per l’Europa intera segna anche l’inizio della Modernità tout court – come è noto trova riscontro aneddotico in moltissime fonti Rinascimentali, dalle anonime “Antiquarie prospettiche romane”, alle Vite del Vasari.
Testimonianze da cui si apprende come l’ispirazione della nuova pittura di decorazione rinascimentale, venisse da quegli insoliti figurini e motivi floreali dipinti sulle volte sotterranee degli ipogei del Colle Oppio, solo più tardi identificati con la Domus neroniana.
In quei saloni, si calarono tutti, fisicamente ed intellettualmente, ad ammirare e copiare le “grottesche”: Raffaello, Michelangelo, Lippi, Perugino… solo per restare al Rinascimento.
La continuità fra antichi e moderni è quindi solidissima, perfetta, perché storica e stilistica.
Ci viene in mente per primo il notturno rinvenuto nel “Stanza nera” della Farnesina (Triclinio C), dove nel blu intenso della notte silenziosa, con mistica sensibilità, l’anonimo artista accenna appena l’impressione retinica d’un paesaggio. È umbratile quiete che suona quasi impossibile se guardiamo alla vivida deformità delle pitture rinvenute a Pompei, nella casa detta del Bracciale d’oro, di cui la mostra alle Scuderie annovera un rigoglioso esemplare dal gusto arcimboldiano: arcimboldiano è anche il frammento che conserva una lotta fra polpo, aragosta e murena, trovato a Roma, nella villa del porto fluviale di S. Paolo.
Altri paralleli sgorgano ancora più possenti, nel caso, ad esempio, delle Sfere Armillari, macchine per lo studio dei movimenti cosmologici, la cui rara raffigurazione in un affresco della villa S. Marco a Stabia (62-79 d.C.), ricorda addirittura le forme dei trionfi teatrali dei fasti romani del Cardinal Riario o delle macchine sceniche pensate da Michelangelo.
Ma c’è davvero spazio per sbizzarrirsi in paralleli arditi, spingendosi fino al raffronto con le avanguardie del Novecento, che forse non a caso vissero in una Europa al suo ultimo, tragico, confronto con l’idea di impero.
Basti guardare le atmosfere enigmatiche e misteriose della “Punizione di Dirce”, che in una casa di Pompei del 40-50 d.C. anticipavano già certe prospettive oniriche del surrealismo; o la “Testa di medusa alata”, sempre pompeiana, la quale è un’allucinata rappresentazione di sofferenza dai toni quasi munchiani.
C’è qui tutto lo scibile artistico europeo: dall’impressionismo d’età augustea (meraviglioso il “Paesaggio e barche su fondo nero”, Pompei, 30-37 a-C.), alle deformità dilettose della natura, all’enigmatica ieraticità delle figure di Perseo ed Andromeda, che nella ricerca della dimensione spirituale ed astratta traducono le irrequietezze e le angosce del tardo impero (Nicchia del teatro Marcello, 375 d.C.) in occhi sgranati e pose astratte.
È a partire da questa figurazione penetrante e simbolica che infine l’impero romano si riversa appieno nell’arte cristiana: i mosaici di Ostia del III secolo d.C. sono tutt’uno con quelli provenienti dal medio oriente siriano e cristiano, da Madaba e dalle sue “pitture in pietra”.
E nella mostra alle Scuderie c’è spazio anche per queste remote province dell’Impero, solidali per gusto e raffinatezza alla punta di diamante del continente, a Roma, come mai forse è accaduto nella lunga storia degli imperialismi. Sono questi forse i pezzi più singolari del percorso: gli encausti di Hawara, in Egitto, la cui lavorazione a cera e colore anticipa il vigore luminoso dell’olio fiammingo.
È Roma, ed è tutta qui, in queste cento opere, nella muta espressione di una pittura che lascia testimonianza d’un impero violento e gentile, colonizzatore e modernizzatore, volgare e poetico, etico ed iniquo, retto e vizioso.
D’un potere culturale ancor prima che politico che volle tutta per sé – ed in definitiva inventò – l’Europa.

Wittgenstein e il ctrl + z

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Se le interfacce sono una simulazione sempre più perfetta della realtà non dobbiamo dimenticare che restano, appunto, una simulazione.
L’affermazione è meno banale se pensiamo alla più peculiare differenza fra realtà ed interfaccia: la reversibilità delle operazioni.
Ciò che infatti caratterizza il virtuale – che esso sia il volto bidimensionale del mio sistema operativo o una complessa simulazione a tre dimensioni per l’apprendimento delle tecniche di aviazione o ancora una esperienza “immersiva” di gioco – è la possibilità di muoversi avanti ed indietro nella scala temporale, con la possibilità di forgiare la realtà attorno alle nostre azioni, che in questo modo si moltiplicano e (dovrebbero) perfezionarsi.
Ad un corso di alfabetizzazione informatica un mio amico, per far comprendere l’operazione crtl + z – quella comunemente denominata “annulla” – ha portato un esempio che ha stupito più d’uno degli auditori. È – diceva – come se mi cadesse il telefono frantumandosi in mille pezzi, ed io potessi tornare indietro nel tempo. Una signora ha quasi applaudito per la geniale trovata.
Le interfacce sono una forma totalizzante di linguaggio, perché combinano tutti o quasi gli universi segnici, in modo verticale, cioè simultaneo. Con il linguaggio d’altronde le interfacce condividono, ed anzi potenziano, l’artificio semantico della metafora: il caso più lampante è l’organizzazione dei sistemi operativi in “finestre” (ma su cosa affaccino queste finestre, poi, nessuno sarebbe capace di spiegarlo…).
In quanto iper-linguaggi le interfacce possono essere considerate delle iper-metafore.
Il gioco di specchi delle metafore sempre impiegate dal linguaggio, il quale così si delinea come metafora totalizzante del Mondo, spingeva Wittgenstein ad affermare che il linguaggio non solo descrive il Mondo, ma ne significa i limiti.
«La proposizione è un’immagine della realtà: Infatti io conosco la situazione da essa rappresentata se comprendo la proposizione. E la proposizione la comprendo senza che me ne si dia il senso.» (Tractatus, 4.021). Ma, prosegue il filosofo, non potrò mai spiegare se non con delle altre proporzioni, il rapporto che intercorre fra queste ed il Mondo.
Bel problema.
Cui si aggiunge la contrapposizione fra dire e mostrare: il “cono d’ombra” del linguaggio, ciò che esso non può dire, è «ciò che può essere solo mostrato». È questo ultimo dettaglio che completa il quadro sulle interfacce, linguaggi tanto più autoritari in quanto potenziano la metafora, in un “dire che può essere mostrato”.
Se la realtà è sempre più contenuta nella metafora del virtuale come cambia il nostro rapporto con il Mondo?
Non saprei dire.
Ma la cultura che ha prodotto le interfacce, in esse descrive il suo preciso rapporto con la realtà, una realtà che si fa elastica e che può facilmente essere piegata al proprio volere. Pensaci. Quanto e come pensiamo di forgiare il Mondo al nostro volere, oggi?
La signora che si stupiva e desiderava impiegare il comando annulla nelle cose della sua vita, probabilmente si convincerà, un giorno, che anche la sua esistenza può essere annullata o riavviata.
Rewind.
Shut-down.

Calder al Palazzo delle Esposizioni. Il moto del cosmo.

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Ugo Mulas. Alexander Calder con Snow Flurry, Saché 1963

Ugo Mulas. Alexander Calder con Snow Flurry, Saché 1963

Oggi meno nominato di altri artisti dell’avanguardia storica, Alexander Calder è tuttavia un autentico gigante dell’arte contemporanea, cui si deve l’apertura della scultura al movimento, in quella che potremmo considerare come una declinazione in chiave “cosmologica” del realismo.
Lo si potrà verificare fino al 14 febbraio a Roma, al Palazzo delle Esposizioni, che ne ripercorre l’attività con una mostra che riunisce oltre 150 pezzi fra tele e sculture, completata dalla proiezione di alcuni rari film legati al percorso artistico di Calder e da un interessante appendice fotografico in due sale, dedicato agli scatti di Ugo Mulas, che negli anni ’60 conobbe Calder a Spoleto e ne documentò la tarda attività del grande capannone-studio di Saché, in Francia.
La retrospettiva, rigorosamente cronologica, muove dal primo contatto con l’arte – cui Calder approda abbandonando la professione di ingegnere, per abbracciare un linguaggio circense “delle attrazioni” sviluppato già dalla tenera età – fino alle sculture giganti della tarda attività.
È un percorso compatto, caratterizzato da una grande abilità tecnica (e tecnologica) e da una straordinaria coerenza estetica: Calder si esprime infatti per forme ricorrenti, eppure sempre cangianti, costruendo sculture-macchine ad imitazione dell’infinita replicazione di atomi e particelle e dell’eterna mutazione della materia.
Una sorta di ricerca cosmologica, dicevamo, a stimolare la costruzione dei tenui e delicati equilibri dei “mobile” (la definizione fu coniata nientemeno che da Marchel Duchamp) cui Calder dedicò tutta la sua carriera artistica.
Si tratta di sculture costruite sul principio del cambiamento: strutture penzolanti composte da bilancieri in ferro agganciati l’uno all’altro e dai quali pendono sottili lamine di metallo laccato. Ne risultano una serie di strutture mobili, appunto, dove la materia si declina in serie imprevedibili ed infinite di forme astratte, fatte dall’interazione fra masse, gravità e “environnement”.
Labili e variabili a seconda delle turbolenze dell’aria e dei fattori ambientali più disparati, queste sculture acquistano così una sensibilità all’ambiente, reagiscono al passaggio del visitatore, verificano gravità ed equilibrio, simulano l’espansione perpetua del cosmo, descrivono galassie e sistemi stellari insoliti e poetici, sognano dell’esistenza del moto perpetuo.
Ugo Mulas. Alexander Calder, Saché, 1963.

Ugo Mulas. Alexander Calder, Saché, 1963.

È come se l’arte astratta di Joan Mirò e Vasilij Kandinskij – le loro esplosioni di geometrie e colori – diventassero improvvisamente degli oggetti. Se negli anni ’30 il gruppo surrealista esplorava l’impatto delle macchine celibi sulla sensibilità, Calder sembrerebbe rispondere nella stessa epoca con delle “macchine a vento” tutt’altro che celibi, ed anzi “dialoganti”, in un’apertura dell’opera al mondo che per certi versi anticipava il gioco delle interazioni delle nuove avanguardie con lo spazio urbano e museale.
Laddove infatti le sculture ed i ready made surrealisti assumono toni foschi e perturbanti, ottenuti mediante un mutismo enigmatico, le opere di Calder respirano il cosmo, ne captano moto e particelle, riallacciando un contatto “descrittivo” con la realtà.
Il discorso di Calder sul reale assume anche maggiore coerenza se guardiamo ad altri momenti della sua produzione, parimenti presenti nella mostra di Roma: quello più precoce, risalente al periodo del “Cirque Calder”, quando cioè l’artista allestiva mini-spettacoli impiegando macchine e pupazzi in fil di ferro; e quello più tardo in cui i “mobile” lasciavano il posto ai loro antagonisti, gli “stabile” (stavolta la definizione fu di Jean Arp), grandi escrescenze ferrose che dalla terra si innalzano verso l’alto, creando angoli, curve ed anse a riconfigurare lo spazio circostante.
È proprio i questi segmenti cronologici che scopriamo l’ossessione calderina per lo studio delle forme, in particolare nella prima fase, in cui la tendenza descrittiva di cui dicevamo si esprime nei tratti sintetici delle delle “wire sculture”, intrecci poetici di filo di ferro che compongono figurini d’uomini ed animali.
Completa ed appassionante, la retrospettiva romana su Alexander Calder offre l’opportunità di riscoprire questo grande artista del Novecento e, di fatto, parte della genesi della rimodulazione in chiave interattiva ed urbana dell’arte contemporanea.

Quattro oranghi a piazza Venezia

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oranghi a piazza Venezia per Greenpeace

oranghi a piazza Venezia per Greenpeace

oranghi a piazza Venezia per Greenpeace

Stamane alle 9 circa a piazza Venezia, la surreale visione di due oranghi arrampicati sui grandi pini marittimi dei Fori, mentre altri due se ne stanno stesi a sonnecchiare all’ombra della Colonna Traiana.
Mentre scrivo è probabile che gli oranghi siano ancora lì, in attesa della polizia che se li porterà via, potete contarci.
E non tanto per una questione zoologica, ma politica.
Già, perché gli scimmioni in questione stringevano striscioni e manifesti all’indirizzo niente di meno che di Silvio Berlusconi, per protestare contro la deforestazione indonesiana ed invitare l’onorevole presidente a presentarsi al vertice sul clima di Copenaghen, previsto per la prima metà di dicembre, e già in aria di triste naufragio.oranghi a piazza Venezia per Greenpeace
Un manifesto firmato Pongo Pygmeus, e stampigliato con il logo di Greenpeace espone la rilevanza della questione Indonesiana, la cui deforestazione è una delle catastrofi ambientali più serie del globo. L’isola dell’Oceania occupa infatti il terzo posto nella classifica mondiale delle emissioni di CO2, dopo Cina e Stati Uniti.
Come può un paese così piccolo inquinare quasi quanto i giganti industriali del pianeta?
oranghi a piazza Venezia per GreenpeaceCe lo spiegano gli oranghi, inquilini di una foresta vergine che sorge su un vasto strato di torba, nel quale sono intrappolati circa due miliardi di tonnellate di carbonio. Gli incendi e le ruspe che fanno spazio alle coltivazioni di palma, permettono così a questa immensa quantità di carbone fossile di sprigionarsi nell’atmosfera.
oranghi a piazza Venezia per GreenpeaceÈ una vera tragedia ambientale, che mette a rischio la salute del pianeta, la nostra, e nell’immediato quella degli oranghi e delle popolazioni locali.
Ma potrebbe essere arrestata con decisioni concrete e soprattutto col denaro: Greenpeace calcola che con 30 miliardi di euro l’anno le foreste del globo potranno essere finalmente messe in sicurezza.
oranghi a piazza Venezia per GreenpeaceIntanto i grossi oranghi sono così gentili da offrire al premier un biglietto ferroviario, per raggiungere la capitale danese.
Come a dire: basta solo un po’ di volontà.

Leggi qui il manifesto dell’iniziativa di Greenpeace

 

 

 

 

switch-off

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switch-off
Da oggi la tele si esprime solo per interminabili formicolii. E non avevo mai pensato a quanto fosse stuperno uno schermo formicolante.
Certe scoperte fanno bene all’anima.
Anche l’assenza della pubblicità fa bene all’anima.
Switch off.
E nel nero del segnale che se ne va – del segnale che muore e risorge digitale – ombre oscure hanno turbato la mia notte.
L’indecisione, intanto.
Avrei potuto comprarlo quel maledetto decoder.
Avrei potuto farmi un’esistenza televisiva nuova di zecca.
Avrei potuto approfittare della grande opportunità, la scelta che aumenta per l’utente soddisfatto.
La libertà del telecomando moltiplicata per 100.
Le facce della politica che mi si replicano su unmilionetrecentomilaCANALI.
E le visioni, sublimi e terribili.
Mi sfrecciavano nei sogni culi e tette rifatte.
Il botulino per il ragazzino.
I denti bianchi e le sfere colorate immerse in acqua a 40° (QUARANTAGRADI!).
Assorbenti e gonfiori di stomaco.
Nello scorrere interminabile della pellicola REM realizzo che nessuno potrà più informarmi sulle conseguenze di una corretta alimentazione.

E poi, le ombre più oscure di tutte.
Mi compare in sogno Maurizio Costanzo che si trasforma lentamente, inesorabilmente, in Jabba the Utt, e sbava, lento, sul mio cuscino.
Vuole rendermi suo schiavo.
Azzurrovestita come madonna televisiva, arriva lei. Maria de Filippi.
E la sua voce viene da una caverna profonda fino nel mezzo delle viscere della terra e le sue mani sono lunghe come quelle della Sorella Secca.

E poi c’è mia nonna, che mi chiama.
Dopo lo switch-off anche chi aveva già comprato il decoder dovrà partecipare al rito collettivo.
Il grande sortilegio digitale che tutti i canali imposta e riordina intelligentemente.
Magicamente.
—————- Hai già impostato i preferiti nel tuo decoder? —————-
Il grande sortilegio, si.
E mentre esercito la potenza dell’interfaccia lei, la nonna, dice.
“…perché c’avevo pure pensato a lasciare perdere… ma casa, oggi… m’ha fatto un’impressione strana”
L’elettricità era venuta meno, o meglio, l’elettricità impazziva sul fosforo, di formiche nere su polvere bianca.
E mancherà anche a tutti gli altri televisori stuperni l’elettricità.
Quelli lasciati a marcire nei container delle Oasi Ecologiche, che non si congiungeranno mai ad un decoder, benché nuovi, nuovissimi.
Essi non godranno dell’ebbrezza dei cento canali.