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lodo numero due

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Paul Delavux, en attendant la liberation

Paul Delavux, en attendant la liberation

Colpevoli e condannati.
Assolti e graziati.
Corrotti e Collusi.

Potenti e poteri.
Accusatori, accusati.
Affaristi ed astuti.

Giudici, giudicati, ingiudicati.

Qualcuno vi parla dalle bombe del ‘73…

Imputato ascolta,
noi ti abbiamo ascoltato.

Tu non sapevi di avere una coscienza al fosforo
piantata tra l’aorta e l’intenzione,
noi ti abbiamo osservato
dal primo battere del cuore
fino ai ritmi più brevi
dell’ultima emozione
quando uccidevi,
favorendo il potere
i soci vitalizi del potere
ammucchiati in discesa
a difesa
della loro celebrazione.

E se tu la credevi vendetta
il fosforo di guardia
segnalava la tua urgenza di potere
mentre ti emozionavi nel ruolo più eccitante della legge
quello che non protegge
la parte del boia.

Imputato,
il dito più lungo della tua mano
è il medio
quello della mia
è l’indice,
eppure anche tu hai giudicato.

Hai assolto e hai condannato
al di sopra di me,
ma al di sopra di me,
per quello che hai fatto,
per come lo hai rinnovato
il potere ti è grato.

Ascolta
una volta un giudice come me
giudicò chi gli aveva dettato la legge:
prima cambiarono il giudice
e subito dopo
la legge.

Oggi, un giudice come me,
lo chiede al potere se può giudicare.
Tu sei il potere.
Vuoi essere giudicato?
Vuoi essere assolto o condannato?

(Sogno numero due da Storia di un impiegato di Fabrizio de André, 1973)

Dada e surrealismo al Museo del Vittoriano

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surrealismo

E’ stata inaugurata oggi a Roma la mostra “Dada e Surrealismo riscoperti”, che occuperà gli spazi del Museo del Vittoriano fino al 7 febbraio 2010.

Il percorso espositivo ripercorre cronologicamente lo sviluppo dei due movimenti, da una parte sorvegliando le singole estetiche dei protagonisti, e dall’altra organizzando le opere seguendo il criterio storico del raggruppamento per esposizioni dell’epoca. Si parte dagli immancabili cadaveri squisiti, frutto di un procedimento non diverso dalla scrittura automatica, consistente nel piegare la tela ed affidare la pittura delle facciate a diversi artisti inconsapevoli del contenuto del resto della tela. Il percorso prosegue con le opere esposte alla collettiva “germinale” del 14 novembre del 1925, per proseguire con l’antologica di Londra dell’11 giugno 1936, ed arrivare all’inaspettata rinascita del Surrealismo nel dopoguerra, ribadita all’epoca da un altro evento antologico nel ’47, sempre a Parigi.

La chiusura del percorso – pensato da Arturo Schwartz e di qualità didattica ma mai didascalico – è affidata agli ultimi strascichi del surrealismo, ovvero alle tre ultime mostre dirette nel ’59, nel ’60 e nel ’65 dagli stessi fondatori del movimento. E v’è qui la dimostrazione che Dada e Surrealismo sono essenze o stili – non già movimenti estemporanei – che hanno accompagnato tutta la storia dell’arte da Bosch a Jarry, dalle pitture rupestri a Gauguin.

Ma tanto per restare sul piano delle qualità intrinseche dell’allestimento, ecco un dato secco: ben cinquecento le opere che contribuiscono allo snodarsi di questo sorprendente percorso alle radici stesse della contemporaneità. E cinquecento opere tutte assieme e mediamente tutte di alto valore storico, quasi saturano l’attenzione del visitatore, che si trova a percorrere le stanze di quello che sembra un vero atelier d’artista, i quadri vicini in quieto disordine, come improvvise illuminazioni.

Del resto che cosa sono il personaggio, lo scenario, l’ambiente surrealisti se non il livido (a volte luminoso) sogno dell’artista nel suo atelier?

Si potrebbe leggere in modo meta-artistico, anzi, l’esperienza del surrealismo, che nel rapido Dada trova le premesse della frattura, ma che si stende poi su pose ed oggetti muti ed enigmatici, al di sopra ed al di là della realtà perché nell’al-di-là dei sogni. Gli oggetti d’atelier, gli ingranaggi della creazione, occupano le notti dell’artista totale, il quale così della vita fa arte e delle cose ready made.

Ed è forse per via di questi sogni d’artista che le opere di Bréton, Duchamp e compagni, sembrano i prodotti di un atelier abbandonato in tutta fretta (G. De Chirico, Bagno misterioso, 1934), o le macchine celibi di una officina impazzita, i cui ingranaggi hanno smesso di produrre biciclette, confondendole con sgabelli e dando vita a tumori tecnologici (M. Duchamp, Roue de bicyclette, 1913).

La razionalità s’ingolfa nelle ascensioni visionarie di questo gruppo di sfollati dall’inconscio e si perde talvolta in voli pindarici nei sogni: è il caso de Le Château des Pyrenées (R. Magritte, 1959) o di Donna avvolta dal volo di un uccello, (J. Mirò, 1941).

Se l’assunto di base di Dada e Surrealismo è in qualche modo lo stesso – quel «no» alle cose del mondo, assunto a vangelo stesso del fare artistico, elementare poesia del contrario – la discontinuità dei due movimenti resta evidente in una specie di quoziente di pericolosità e danno (M. Ray, Cadeau, 1921), onnipresente nel dadaismo ed invece attenuato nelle digressioni più puramente surrealiste.

Se il surrealismo è sogno, coerente nella sua assurdità, Dada sembra l’effetto allucinatorio dell’acido lisergico, deflagrazione che per la sua rapidità rivendica occasionalmente la vicinanza col Futurismo (Farfa, Ritratto geografico di Marinetti, 1925).

Dada è un esplosione, è il linguaggio di chi è affetto da una degenerazione cerebrale cronica, una psicanalisi “en plein air” in cui l’oggetto, decontestualizzato, tradito e vilipeso nelle sue funzioni elementari (M. Duchamp, Porte-bouteilles, 1914 oppure Fontaine, 1917), diventa linguaggio, cambiando di contenuto pur mantenendo intatta la propria forma.

È alla solidità del meccanismo della sorpresa che si affidano i due movimenti (in questo non è sbagliato accusare gli organizzatori della mostra d’una certa superficialità nella traduzione delle didascalie, che non sempre rendono i giochi linguistici alla base della struttura semantica dell’opera, quasi sempre “integrata” alla didascalia), la stessa solidità che caratterizza pressoché tutta la storia dell’arte più recente, da quella concettuale alla post-avanguardia, dal pop alla neoavanguardia, (le rare e lucide eccezioni si trovano ad esempio nel nero “impressionista” e romantico di Rothko).

Nel collage e nel gusto per l’assemblaggio, per il significato, insomma, che scaturisce dall’abbinamento forzato delle cose (H. Bellmer, La bambola, 1938) sta la forza linguistica di queste avanguardie, che intuiscono i valori fondamentali e le regole della comunicazione d’oggi.

La pure ristretta produzione filmica dei surrealisti ha un ruolo chiave nella storia del cinema. Della settima arte, Duchamp, Picabia e gli altri sfruttano il potere affabulatore e vi realizzano così il sogno della significazione allusiva ed “aperta” , della realizzazione d’una realtà altra e mistificata. Nel cinema rêverie e macchine celibi, si fanno viventi (F. Léger, Ballet mécanique ; F. Pacabia l’Entr’acte, entrambi del 1924). Così, l’arte surrealista e dadaista sembra vivere già nel nostro presente: colleziona atti di sovversione del linguaggio, ma nell’interesse per il linguaggio trova anche l’alfabeto essenziale della pubblicità e della comunicazione computazionale dei nostri giorni.

La formazione inquietante, irrazionalista, di quegli antichi e misteriosi “cadavre exquis”, è ripetuta oggi nelle luminescenze televisive che ne copiano trucchi e impatto emotivo, ma con tutt’altra allure rivoluzionaria.

http://www.c6.tv/archivio?id=6300&task=view

Spencer Tunick: foto o performance?

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spencerTunick

Video: leparisien.fr

Le foto di Spencer Tunick non sono particolamente interessanti da un punto di vista tecnico.
La qualità di questo straordinario artista risiede suprattutto nell’istinto teatrale necessario al controllo delle enormi masse di persone che docilmente si prestano alle sue performance, denudandosi nei luoghi più impensati del mondo: dagli alti ghiacciai in estinzione, alla Piazza Rossa; da Città del Messico a Londra; dai remoti deserti naturali alle affollate metropoli occidentali.

E sono performance, appunto, quelle di Spencer Tunick, in cui si ha l’impressione che la fotografia sia solo uno strumento di documentazione di un atto collettivo e naturale rivolto all’esperienza della diversità. Qui la fotografia non sembra, insomma, l’oggetto della riflessione artistica, ma il mero strumento, la traccia, di un gesto altrimenti muto.

L’incrocio delle tematiche sollecitate da questi nudi collettivi si articola su più livelli tematici. In particolare, la diversità delle nudità reciproche, esprime la diversità della
condizione razziale e la rende impossibile e paradossale.
E ancora il nudo è presentato come la possibilità di esplorare azioni e reazioni al di là dell’abitudine e delle maschere quotidiane.
Al di là dell’abito, per esporre una comune natura umana, misteriosa e meravigliosa, sia che occupi il marciapiede di New York sia che si stenda su un molo del mare grigiomercurio d’Irlanda.

Ecco una rappresentazione della fragilità umana: nudo in una biosfera in equilibrio precario, l’uomo assume una bellezza eterna ed asessuata, perché esposto nella semplice perfezione del divino.
Le masse che popolano queste immagini sembrano colonie batteriche, aggragazioni di una delle infinite forme di vita che abitano il pianeta. I corpi si combinano in frattali rosa e neri e bianchi, puntuti delle braccia e delle gambe di una coreografia statica, quasi a dischiudere la conchiglia, il coocoon, che scherma le nostre esistenze.
Nei vestiti si incrostano i retaggi sociali e quelli comportamentali, e attraverso l’abbigliamento si esprimono ruoli sociali, forme di segregazione, culture: tutto ciò che ci rende umani, ma che ci fa anche dimenticare della disarmante verità dell’uguaglianza.
Il corpo vecchio ed il corpo giovane, il colore della pelle e quello dei capelli, altezza e grassezza. Nella massa le caratteristiche fisiche e sessuali passano in secondo piano. E la differenza così nettamente esposta diventa appartenenza univoca alla sola razza che conti: quella umana.
E così le masse nude si fanno riunioni di angeli asessuati. L’eguaglianza è assoluta nella pure totale varietà di forme e colori.
Eccoli gli uomini di fronte al cosmo. Esseri persi in remote terre desolate, abbandonati da una divinità muta e severa nell’immensità dell’ecosistema e dunque stretti fra di loro per rubare forza e calore all’atmosfera.

Rimane solo la bellezza della varietà umana e naturale, in una astratta geometria della visione.
Le skyline e le architetture ne risultano scolpite, incastonate, di pelle e di carne.
E’ una specie di rito collettivo che si è ripetuto qualche giorno fa, il 3 ottobre, in Francia, in occasione di una azione di sensibilizzazione organizzata da Greenpeace, che in collaborazione col fotografo ha realizzato una campagna contro il riscaldamento globale, coinvolgendo 720 volontari che hanno passato un pomeriggio a passeggio (nudista, certamente) in una vigna della borgogna.
Sembra infatti che il riscaldamento globale avrà effetti significativi sulle zone vinicole, che già oggi si spostano progressivamente più a nord, con conseguenze ancora imprevedibili per le regioni cui fino ad oggi era riservato il privilegio divino dell’uva.

Al di là dell’impegno politico e della bellezza puramente visuale delle immagini prodotte da Tunick, restano numerose le perplessità su questa fotografia smaccatamente spettacolare, high budget, che mette una idea (le coreografie di massa, l’effetto straniante delle folle nude) al di sopra di ogni altro elemento estetico.
Una parte su tutte le altre. Tanto che viene da chiedersi se sia veramente il mestiere del fotografo a fare la differenza.

Le bal retrouvé (dans la ferme)

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bal de bardak

Ce n’est point un simple endroit où aller danser. Une fabrique à argent non plus.
Les bals du collectif Kouzkmienko sont des prises de consciences, ou – si vous préférez – des gestes politiques.
Kouzkmienko ! Pour ceux qui ne le savent pas encore, il s’agit là du nom de l’heureuse tribu qui s’obstine et persévère depuis quelques années, dans l’idée que les endroits où on va s’amuser peuvent aussi être des lieux de rencontre. Car il est peut être malsain le monde où la Nuit Blanche n’est qu’une occasion annuelle d’évaluer l’attractive touristique de nos villes et se prendre une pause de la télé.
Et voilà alors : la formule est la même des Bals de Piano d’antan, avec les mêmes explosions de créativité musical, le gout pour la performance, la poésie qui passe à travers le circuit crépitant d’un mégaphone, la théâtralité, toujours la théâtralité sous-exposée dans l’allure des musiciens pauvre et bohémiens.
Vinicio Capossela, je parie mon stylo, aimerait bien s’unir à cette masse de chapeaux à la balalaïka et au trombone, un peu Tom Waits et un peu valse musette.
Mais cette fois, on objectera, on n’est plus dans la décadente usine de pianos.
Mais ils ont pensé à tout ces malins de KouzkmienkoS ; ainsi ils ont changé le nom de Bal de Piano en celui, bien plus tzigane, de Bal Bardak, peut être pour signaler l’heureuse nouveauté : l’endroit, capable (et je parle à ceux qui avaient aimé les efforts pour monter la « France des Caves » mais qui ont aussi trop transpirés sous terre et trop regretté la vielle usine de Montreuil) de faire oublier le passé récent, avec un autre passé, celui d’un impressionnisme dansant, jamais mélancolique ou anachronique, mais ivre et vivant comme un « Bal au Moulin de la Galette ».
Cet endroit est « la Ferme du Bonheur », paradis – mon Dieu, je ne veux pas être rhétorique – au milieu du béton, les tours de GothamParisDéfenseCity juste en face. De l’arrêt du RER il faut passer dans l’université et puis se jeter aux pieds des hauts immeubles tout au tour.
La ferme est une ferme pour de vrai : et ça se trouve qu’un cochon s’endorme même si vous faites beaucoup de bruits autour de lui, et on a vérifié la même chose chez les colombes qui se réchauffaient tranquilles dans le grand vacarme de la sarabande juste au dessous de leur grande volière.
Et sinon, si vous aimez le western, les chariots typiques vous attendent. Mais vous pouvez plus simplement faire connaissance du chat de la maison, qui s’occupe avec plaisir des moutons ; ou encore ignorer l’animalerie et passer directement au délire collectif d’une centaine de personnes assises par terre, qui se reconnaissent dans des cris et des gestes insensés, une façon de retourner à la réalité.
La musique est encore une fois l’indispensable hypnotisme analogique des groups historique d’une certaine Paris underground : Gallina la Lupa et Tonino Cavallo, mais aussi Imbu, Bania, Telamure, Vilain Poncko, La Grappa… Tous prêts à engager la Taranta finale, les corps morts des gens tout au tour, décimés par le rafles des tambours.
Et s’il fait trop froid à l’extérieur et sur les pelouses qui restent entre les chapitrons du cirque à coté, si vous en avez marre de bouger, ne vous inquiétez pas : le vin n’est pas chère et la soupe nous rappelle certaines dimanche passées à l’ombre du Théâtre de Verre de Louis Pasina.
Et puis quelques matelas au cas où le vin soit trop et exagérée la fatigue.

Terre Natale – Ailleurs commence ici. Topografia dell’altrove.

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 Terre Natale - Ailleurs commence ici. Topografia dell’altrove.

Paul Virilio non è nuovo dell’ambiente. Anzi, è di casa.
Per la Fondation Cartier pour l’art contemporain aveva già pensato una mostra cruciale, Accidens, che sviluppava il tema dell’incidente come forma d’arte nelle civiltà della velocità, dell’ipertecnologia, del dominio mediatico.
In questi giorni Paul Virilio è ancora lì che passeggia e parla, passage d’Enfer, un budello ad appena qualche metro dalla sede della fondazione, stesso marciapiede, davanti al cimitero di Montparnasse. Tutto il giorno Paul Virilio cammina e parla e percorre il passage: ma è una luminescenza in proiezione perpetua al piano “Sous-Sol” della mostra organizzata stavolta con Raymond Depardon, fotografo e documentarista francese fra i più celebrati. Doppio titolo (o titolo e sottotitolo) per il duplice percorso che durerà fino al 15 marzo: “Terre natale – Ailleurs commence ici”.Terre Natale - Ailleurs commence ici. Topografia dell’altrove.
I temi sono quelli cari ai due organizzatori, che pur con le loro specifiche sensibilità, si fanno eco l’un l’altro in simmetria quasi perfetta. Al centro v’è l’idea di terra natale, polverizzata dalla globalizzazione, sia per gli occidentali – costretti per la prima volta a confrontarsi con la perdita di identità e tradizioni e col mondo rimpicciolito a colpi di comunicazione e supervelocità – sia per i “figli di un dio minore” che vedono progressivamente scomparire il loro spazio vitale, e i loro ecosistemi farsi sempre più piccoli.


La terra non basta! La terra brucia!

Per entrambi la terra sembra più piccola di prima. Ma si inizia con chi la terra e l’identità se le vede rubare. Sull’imponente maxischermo della grande sala, gira a loop “Donner la parole”, sequenza di ritratti girati in alta definizione, pillole linguistiche introdotte da giganteschi titoli rossi che segnalano il luogo e la lingua del parlante. Poi il breve monologo.
Sentiamo parlare in Kawésqar (Cile), Chipaya (Bolivia), Quechua (Bolivia), Mapuche (Cile), Afar (Etiopia), Occitano (Fancia), Bretone (Francia), Guarani (Brasile) e Yanomami (Brasile). Una sequenza di dettagli di volti parlanti che ammoniscono la civiltà di massa. Divinità primitive, elementari, pure, schiaccianti. Le dimensioni della proiezione ed il dettaglio del digitale a donare forza simbolica alle immagini.
Si prosegue con quelli a cui la terra non basta. Il limite della crescita infinita è solo la terra, che già progettiamo di abbandonare. Pianeta usa-e-getta, piccolissimo, minuscolo: il nuovo nomadismo ipertecnologico ci fa stare sempre a casa, il movimento è sempre più svincolato dalla proporzione geografica. Il mondo è un granello di sabbia.
Per la secondai installazione Raymond Depardon ha fatto il giro del mondo in 14 giorni, riproducendo una delocalizzazione paradossale per rapidità e simmetria degli scenari. Solo con la sua camera tascabile ha toccato Washington, Los Angeles, Honolulu, Tokyo, Hồ Chí Minh (già Saigon), Singapore, Città del Capo.
I video, divisi in giorni, sono proiettati su due schermi messi ad angolo. Riprese a camera fissa che osservano attonite lo scorrere delle auto, o la vita nelle strade commerciali. Da più punti di vista, in sincrono, fuori sincrono. Le città occidentali si replicano l’una nell’altra e finiscono con l’assomigliarsi tutte.


Altrove comincia qui.
E veniamo (torniamo) a Paul Virilio che cammina nel passage d’Enfer.
Il suo monologo ci introduce alle video-installazioni progettate da Diller Scofidio + Renfro.
Si parte da un dato di fatto: nei prossimi 40 anni duecento milioni di persone saranno costrette a migrare. È il più grande esodo a memoria d’uomo. Ed è già in corso.
Terre Natale - Ailleurs commence ici. Topografia dell’altrove.Vale la pena di riconsiderare, dice Virilio, le nostre immagini di sedentario e nomade. L’occidente ha inventato una nuova forma di sedentarismo in movimento, dove non esiste “altrove” pur in una prospettiva geografica virtualmente infinita, liquida e priva di frontiere. Il nomade è invece quello che è sempre da nessuna parte, cittadino di niente, nelle metropoli occidentali o nelle nuove megalopoli sottosviluppate.
Lo spazio geografico e politico come è stato inteso fino ad oggi, sparisce: la cittadinanza occidentale si espande e scontra con la finitezza del pianeta terra.
Il fenomeno è illustrato da una quarantina di monitor sospesi, che collaborano o si alternano nella proiezione di scene di migrazione registrate dai telegiornali: è l’attualità irriconoscibile delle scene di migrazione. Ma saremmo capaci di dire quali migrazioni? Identificare luoghi e scenari politici?
La seconda parte delle videoinstallazioni si caratterizza invece per il concept mediatico quasi invasivo. Su un maxischermo a 360° sono proiettati dati statistici, espressi con animazioni in grafica 3d di altissimo impatto visuale.
Temi affrontati: “popolazione e migrazioni urbane”, dove si espongono i dati della concentrazione urbana planetaria. Ricordiamo soprattutto che il 2007 è stato l’anno del sorpasso: quello in cui per la prima volta nella storia, la popolazione urbana ha superato, su scala planetaria, quella rurale. Cosicché oggi il 51% degli esseri umani vive in città.
In “Flussi di uomini e denaro” si mostrano le quantità di denaro spostate dai risparmiatori emigrati: le somme di quella economia informale creata da chi lavora in occidente ed invia sostegni alla famiglia d’origine. Come in un perfido contrappasso o gioco di vasi comunicanti, i proventi delle usurpazioni del “primo mondo” sul terzo mondo fanno il loro viaggio di andata-ritorno. E viceversa.
Segue una rappresentazione in tre dimensioni ed in scala temporale delle “migrazioni forzate e politiche”: uomini come sciami di pixel in movimento fra Rwanda, Arabia Saudita, Kosovo, Regno Unito, Messico, Stati Uniti, Russia. Qui alle andate seguono solo raramente i ritorni, ed i trasferimenti di massa descrivono lacci intercontinentali fra mondonord e mondosud. Stessa rappresentazione grafica anche per le migrazioni passate, presenti e future, legate agli squilibri climatici ed alle catastrofi naturali. Cifre impressionanti, già triple rispetto alle masse in movimento per lo stesso motivo alla fine degli anni ’90.
Infine “Mari che salgono, città che scompaiono” proietta il livello del mare da qui al 2100: i nomi delle città si dispongono su un mappamondo virtuale e poi si espandono sull’orizzontale dello schermo a 360°. La scala temporale indica lo scorrere del tempo e le città migrano sopra e sotto l’equatore del limite di sommersione.
Per noi a dir poco amara la sparizione del litorale laziale e dell’Italia tutta (o quasi).
Fine. O meglio inizio. Perché le immagini di Terre Natale sono un terreno di coltura ideale per le cellule celebrali; incidono la mente e lasciano un solco profondo atto ad ospitare fertilissimi pensieri di scienza politica, anche a chi non mastica la materia.
Solo una cosa ci sentiremmo di imputare al duo Virilio – Depardon, e cioè la sparizione del local nella loro analisi del global. Sembra un ritornello, ma è efficace per dire che nella loro analisi non v’è quasi traccia delle migrazioni che travolgono l’Europa. È un effetto, forse, di quella tara alla centralizzazione, croce e delizia della Francia. Per cui, poco spazio alla disperazione del mediterraneo ed un occhio sugli “altrove” più prossimi alla Francia o agli Stati Uniti, per storia, indoli o colonialismi.
Ma non proprio per prossimità geografica.

Damiàn Ortega al Pompidou. Rivoluzione impressionista.

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Cosmic Thing, 2002
La fine dell’esposizione che abbiamo visto al Centre Pompidou dedicata a Damiàn Ortega è lo spunto per affrontare l’attività di questo eccezionale artista, ma anche il punto di partenza per una riflessione sull’attualità del motivo impressionista nell’arte “ultra-moderna”. Visto attraverso il “Campo di visione” dell’artista messicano, il problema della percezione sollevato alla fine del secolo XIX dagli impressionisti sembra essere ancora il brodo primordiale delle avanguardie che si spingono sul campo della critica della società della comunicazione.

Ortega, prima di tutto.
champ de visionL’installazione presentata al Centro Pompidou dal 13 novembre al 9 febbraio, intitolata “Champ de vision” si apre con un cartone a matita in cui la tavola periodica degli elementi di Dimitrij Mendeleev è rappresentata a spirale, dall’idrogeno, posto al centro, fino agli elementi più complessi. Così come sono disegnati da Ortega gli atomi rispondono alle teorie dei quanti: sono composti da due lastre circolari, inserite perpendicolarmente l’una nella metà dell’altra, come due monete fuse assieme.
Il cartone introduce al secondo ambiente, una stanza di duecento metri quadrati dove le stesse molecole, realizzate in plexiglass di quattro colori differenti, sono sospese nel vuoto; ancorate a dei fili di nylon trasparente formano 12 barriere.
Il visitatore è invitato ad attraversare le intercapedini di questa nuvola di molecole trasparenti in CMYK.
Sembra di attraversare un gas visto al microscopio a scansione.

Una questione di colore.
È una riproduzione della materia ingigantita fino all’atomo. Ma ci si accorge quasi subito che la sospensione delle molecole deve rispondere ad una qualche logica ottica.
Ogni filo di nylon ripete un ordine sempre diverso, ma in qualche modo simmetrico. I colori impiegati sono gli stessi della riproduzione del colore in tipografia. Ciano (C), Magenta (M), Giallo (Y), Nero (K): quadricromia. La trasparenza del plexiglass consente la sovrapposizione del colore.

Il pixel o la pennellata impressionista.
champ de visionIntercapedine dopo intercapedine le molecole si restringono. Il piano di riflessione della luce si riduce, come a descrivere due linee di fuga prospettica. Dietro un muro, infine, si può osservare la nuvola multicolore da uno spioncino.
Ma l’immagine complessiva qui si condensa in uno sguardo. All’occhio è restituita l’immagine di un occhio, di tanto in tanto attraversato da un visitatore.
Ortega ha usato gli stessi principi dell’impressione ottica studiati dalla pittura impressionista, per cui la luce è somma di un insieme di singole impressioni sensoriali della retina. Ma se in quella pittura positivista il processo rimaneva ancora sostanzialmente artigianale, con la stampa serigrafica la tavolozza ottica si riduce a quattro elementi.
Infine, nella rappresentazione ipermediale (che emette luce) la tavolozza si riduce ulteriormente a tre colori. Il rosso, il verde, il blu: RGB.
Questa riduzione ad infimo ha una portata fortemente simbolica; è una questione semantica, dunque strettamente collegata all’idea di codifica del mondo attraverso un linguaggio.
“Parlare il mondo” non è percepirlo passivamente, ma interpretarlo.
champ de visionLa weltanshauung (ed in particolare quella delle nostre società, votate alla comunicazione assoluta e mediata) si esprime anche e soprattutto nella forma del linguaggio. Del resto, tornando al problema della frammentazione dell’immagine tipografica in quattro singoli colori, questa osservazione della realtà in quadricromia non era sfuggita alla pop-art, che la immolò a simbolo stesso della cultura di massa.
champ de visionMa il gusto pop caratterizza l’attività anche precedente di Damiàn Ortega, che per la Biennale Arte 2003 sospendeva con gli stessi fili di nylon un maggiolone completamente smontato, “esplodendolo” in guisa di manuale di montaggio a dimensioni reali e tridimensionali.
In “Campi di visione” con linguaggio ancora pop, ironico ed irriverente, Damiàn Ortega non realizza solo l’ingigantimento al microscopio della materia, ma espone in un colpo una buona parte delle declinazioni specifiche della weltanschauung occidentale.

La realtà come gas. Filosofia interminabile dell’indeterminabile.
In fisica si osserva la progressiva sparizione della materia corpuscolare, per cui un oggetto (l’occhio della mostra), è la somma non solo di una quantità di atomi elementari, ma anche di una serie di vuoti.
Le più recenti teorie fisiche sulla struttura della materia si concentrano sull’indeterminazione: la materia è descritta più come una nuvola gassosa, (o come “corde” vibranti), che come insieme retificato e più o meno gerarchizzato di molecole.
Gli atomi sono così sempre “delocalizzati”, ovunque ed altrove, in perpetuo movimento.
La visione della materia della nostra società liquida sembra distante anni luce dalla gerarchizzazione delle molecole, immaginata invece dalle società che produssero anche i grandi stati burocratici.
La riduzione della materia a molecole sempre più elementari ed ineffabili è l’altra faccia della scatola ottica dalla quale il razionalismo osserva il mondo. La corsa ad infimum diventa una corsa ad infinitum, ciclo di riduzione perpetua ed incessante in cui la materia esplode, fino alla sua totale ineffabilità.
O fino ad ingoiare il mondo che conosciamo, lo spazio ed il tempo, come alcuni vorrebbero accada al CERN di Ginevra.
« […] Esistono delle vaste superfici bianche o vuote nel mezzo di una immagine apparentemente satura di colore. Si può osservare lo stesso fenomeno per gli oggetti solidi. Se si guarda la loro composizione molecolare, si scopre una grande quantità di vuoto fra gli atomi che lo compongono. Come può un oggetto esser solido e duro se contiene tanto vuoto? Ciò si deve al fatto che i suoi atomi sono costantemente stimolati e muovendosi formano un campo di tensione. Per illustrare mentalmente questo fenomeno, ci si può servire dell’immagine di una palla in gomma legata all’estremità d’una corda, che giri vorticosamente attorno ad un asse. Se siamo incapaci di dire dove si trova di preciso la sfera, è altresì possibile stabilirne il perimetro di rotazione. »
(Estratto dell’intervista a Damiàn Ortega di Anna Hiddleston e Sinziana Ravini, traduzione mia, n.d.r.)
Analoga la concezione contemporanea della percezione ottica, che nei suoi aspetti fisiologici e cognitivi è descritta come una sorta di processo di elaborazione digitale. Le frequenze luminose sono porzioni minime di stimoli: la scomposizione della luce in trame elementari porta con sé la possibilità di riprodurla attraverso algoritmi matematici.
L’immagine diviene informazione e segnale: “piège visuel”, essa si conforma alla tendenza di tutti i linguaggi contemporanei. Anche nel web semantico il messaggio e la sua fonte sono sempre più indeterminati: esistono ovunque e da nessuna parte. E la cosa riguarda sia il messaggio in sé (la provenienza e la tipologia dell’informazione sono sempre più indeterminabili) che il supporto di lettura (per il momento gli schermi) ma anche il supporto fisico in cui esso è registrato: insieme di sequenze elementari di codici, stivate ovunque e da nessuna parte, svilite del loro valore specifico.
Uomo de-localizzato come la materia che immagina e vede. La replicabilità infinita del messaggio contribuisce paradossalmente alla sua dispersione.
Per tornare al sistema delle arti, facciamo un’ultima considerazione: la scatola ottica in cui è confezionata l’installazione di Ortega è ispirata ai principi dell’ottica rinascimentale. Il che sposta indietro ancora nel tempo il limite di inizio del movimento di sintesi razionale della sfera cognitiva.

il sessantotto da uno che nOn c’era [V]

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Come per Marcuse, il fachiro nel sistema dominante, tutto viene inglobato e diventa dieta igienica.
Allora l’autodeterminazione dei popoli? Fa problema oppure è usata per condizionare l’opinione pubblica?
C’è il Tibet. C’è il Kosovo. C’è la Palestina.
Quale autodeterminazione dei popoli abbiamo scelto oggi nel ricco menu dell’informazione globale?
Il volume delle parole è più proporzionale alla quantità di morti o di abusi?
Ti ricordi di Yasser Arafat?
Ti ricordi dei muri di calcestruzzo?
Ti ricordi del Sessantotto?
segoneon - photorights artMobbing @ rk22.com
Eppure oggi suona ridicola la tavola rotonda del potere e le sue convergenze complottistiche fanno ridere.

[immagine bianconero di Peter Sellers che fa il saluto nazista. Stranamore?]

Già: non esiste alcun tavolo tondo delle decisioni. La tendenza è ben più terrificante: la tendenza è l’auto-omologazione che ha sostituito da un bel pezzo l’autodeterminazione.
E certo le interfacce e la semantica web ci stanno mettendo del loro.

Qualcuno obietta: ma hai già visto una pubblicità su internet che ti è veramente rimasta nel cerebro?
La risposta è chiaramente no. Ma la risposta è anche che internet usa mezzi di persuasione occulta, che il trucco è la facilità di accesso alle informazioni, le quali, proprio in virtù del fatto che sono scelte volontariamente dall’utente, sembrano meno mendaci degli altri media. Internet è la verità.
Ma siamo poi davvero sicuri che sia una verità meno mendace?

Se il linguaggio diventa lo stesso per tutti, ed essendo quella del linguaggio la dimensione stessa dell’esistenza umana, cosa sta accadendo alle nostre PERCEZIONI ora?
Cosa succede se nel cervello di un americano, di un europeo, di un giapponese, si attivano gli stessi circuiti e si vanno a toccare le stesse corde?

Il linguaggio produce senso: non dimentichiamo le pagine di Heidegger in cui si spiega in che modo la parola verità influenzi l’immagine mentale stessa che il greco antico ha della verità.
Nel mondo greco, ci dice il filosofo, la parola Aletheia, che suona come “verità”, vuol dire in realtà non-ascosità non-velato; di qui la verità come svelamento (Unverborgenheit).
Da un punto di vista linguistico è attraverso la parola verità, insomma, che il greco ne coglie l’essenza metafisica.

“[…] la metafisica non porta l’essere stesso al linguaggio, perché non pensa l’essere nella sua verità e la verità non come svelatezza, e la svelatezza non nella sua essenza. Nella metafisica, l’essenza della verità compare sempre e solo nella forma già derivata della verità della conoscenza e della asserzione. Eppure la svelatezza potrebbe essere qualcosa di più iniziale della verità nel senso della veritas. Aletheia potrebbe essere la parola che dà un’indicazione non ancora esperita sull’essenza impensata dell’essere. E se le cose stanno così, allora è chiaro che il pensiero della metafisica, che procede per rappresentazioni, non potrà mai raggiungere questa essenza della verità,[…]; si tratta di porre attenzione all’avvento dell’essenza ancora non detta della svelatezza in cui l’essere si è annunciato. Nel frattempo, alla metafisica, durante tutta la sua storia da Anassimandro a Nietzsche, resta nascosta la verità dell’essere. Perché la metafisica non ci pensa?” [ICM, pg. 321]

Nella grancassa del Web il complotto in realtà si concerta a solo. E’ una questione di semantica.

Anche il principio della parità – almeno virtuale – dei diritti di ogni uomo di fronte alla giustizia subisce nel sistema americano un pericoloso decalage: si verifica così lo scollamento del potere delle Corporation dall’interesse personale.
Il diritto americano non prevede alcuna condanna penale per i dirigenti delle corporation, ammettendo implicitamente che la corporation sia un organismo a sé, suscettibile di prendere decisioni autonome e di avere un comportamento che trascende da quello degli individui che lo compongono.
La corporation è insomma un individuo, ma viene da sé che il deterrente della pena, su un individuo che esiste solo nelle cifre cabalistiche della borsa, è nullo.
Habeas corpus, si, ma quale corpus?
Corpus consumisticus?

Detto questo, come si può pensare che il consumismo non sia il male del capitalismo?
Anche se la produzione viene finalizzata, cosa resta dell’anelito di ciascuno all’autodeterminazione?
Cosa vale un corpo se esso serve solo per impartire consumi?
Cambia qualcosa se questi consumi sono giusti o ingiusti?
Non è piuttosto il consumismo una forma di abbattimento dello spirito?
E cosa succederà quando questo consumo sarà ECOCOMPATIBILE?

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