Ensor = Hareng Saur = James (art) Ensor [parte I]

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Squelettes se disputant un hareng-saur

Squelettes se disputant un hareng-saur


« J’ai anticipé tous les mouvements modernes ». L’affermazione è non già d’un artista, ma di un un’aringa salata, stoccafisso umano stretto fra i denti di due teschi, che – ingordi – se ne disputano l’odore forte ed il sapore cauterizzante.
Dietro al gioco linguistico di vena surrealista, si cela il nome di James (Art) Ensor, belga d’origine, profeta della tetra illusione e dell’orribile, cui il Musée d’Orsay – in occasione del sessantenario della morte – ha consacrato una lunga ed affascinante retrospettiva, terminata il 4 febbraio.
Ed è appunto da qui, dall’equazione « Ensor = Hareng saur = Art Ensor » che dobbiamo partire per afferrare la personalità controversa d’un artista che preferì il tanfo della marcescenza marina, agli atelier e ai boulevard colorati di marca impressionista, e che volle realizzare il sublime e l’assoluto più che la bellezza.
Ensor inizia dal culto della persona ai limiti dell’ossessione, dall’avvitamento nei ricordi, giungendo dall’analisi spietata dell’inconscio alla vivisezione del cadavere nascosto sotto la belle époque.
Putrefazione e deformazione: ecce homo, ecce Ensor, ecco la lucente modernità irrisa in un baraccone circense di smorfie e maschere, in una tetra sfilata di corpi “scheletrizzati” e crani ghignanti.
L'intrigue

L'intrigue


« Partout la bizarrerie domine » : è questo un atelier degli orrori, che già dalle prove immediatamente successive alla formazione presso l’Accademia delle Belle Arti di Bruxelles, evoca le visioni infantili assorbite nella boutique della nonna, che l’artista stesso racconta come locus magicus di accese fantasmagorie mortuarie.
La mostra inizia proprio con un anelito alla modernità: “La dame en détresse”(1882) è una visione mortuaria che parla la lingua di certe plastiche lascive dell’art nouveau di Schiele, mentre “L’après midi à Ostende” (1881) sembra entrare subito in dialettica negativa con la moda dell’impressione ottica, proponendo un salotto “sottoesposto” nel buio tetro delle tende tirate, a lottare contro il pur tenue sole nordico.
Ma se Ensor anticipa certe immagini “affusolate” e decadenti dell’Art Nouveau, si distingue da quelle soprattutto nella disintegrazione delle decorazioni, spesso riassunte in barlumi di luce colante, come accade nelle tende sullo sfondo de “Les enfants à la toilette” (1886). Il tema infantile è del resto sviluppato sovente in queste prime prove con lo stesso piglio acido e virulento; è il caso de “L’enfant à la poupée” (1884) ove due neonati sono ridotti ad ammassi di carne ed ossa ai piedi di una madre quasi spettrale.
Le visioni fantomatiche ed esoteriche si fanno più forti poco più tardi, verso la fine degli anni ’80, quando, al modo di Goya, i fantasmi dell’onirico non sono solo trasferiti nelle ombre, ma emergono, vigorosi, dal sonno come esseri in carne ed ossa, pronti ad insoliti festini notturni (“Ma tante endormie rêvant des monstres ”, “Cheminée”, “Hyppogriffe”, tutte degli anni ‘80).

molleindustria: alienazione

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evrydaythesamedream

evrydaythesamedream


Molleindustria è una vecchia conoscenza internettiana. Mi aveva particolarmente divertito con il gioco di strategia in flash d’allure “no-global”, tutto dedicato al mcDonald’s, in cui lo scopo era far profitti, ed i mezzi per raggiungerli un mix di marketing demagogico e deforestazione.
Archiviati nel mio cerebro, riescono qualche giorno fa nella posta con questa interazione (alienazione) flash.
http://www.molleindustria.org/everydaythesamedream/everydaythesamedream.html
Ogni giorno gli stessi sogni fanno sognare una vita sempre identica.
Vale la pena perdersi nel loop ipnotico per qualche minuto, senza spaventarsi della ripetizione.
Azzerando il cervello si scopre che un attimo, nell’identica modulazione dei secondi, può facilmente diventare una vita.

I conti della serva aggiornati! Il treno, l’aereo, il tiggì nazionale

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treniche?
Neanche lavorassi in RAI ieri, domenica 13 dicembre, al TG2 della sera imbrocco un servizio sulle FS e le tariffe dei treni che somiglia ai miei conti della serva (ma mica leggerai Paris Mushrooms, vero tiggìddue?).
Il geniale giornalista, dopo avere parlato del grande vantaggio dell’alta velocità – finalmente attiva su tutta la tratta Salerno-Torino – rifilava la sua stoccata finale alle ferrovie, argomentando i prezzi come solo potrebbe chi è abituato a farsi pagare le trasferte da mamma RAI.
Diceva: facciamo il confronto. Se volessi andare domani a Milano conviene il treno o conviene l’aereo?
E confrontava le tariffe Alitalia con quelle dei Treni. Facendo solo un rapido accenno alle low-cost, il giornalista concludeva che sebbene le tariffe fossero quasi identiche fra treno ed aereo per acquisti a 24 ore dalla partenza, con prenotazioni a 30 giorni dal viaggio la spunterebbe l’aereo a fronte delle tariffe invariate sulla rete ferroviaria.
Vero, verissimo.
Ma che c’è che non va nel servizio del TG2?
Intanto c’è la completezza dell’informazione: nessun accenno, come anticipavo, alle low cost.
Facendo lo stesso calcolo dall’oggi al domani, si scopre infatti che la tariffa più bassa a/r con Alitalia è di 183€ circa a fronte dei circa 117€ con Easyjet.
Una forbice fra trasporto low-cost e di bandiera che si allarga ulteriormente per i biglietti presi con 30 giorni di anticipo e che diventa ancora più ampia se in mezzo ci mettiamo anche le tariffe Trenitalia, che con questa nuova alta velocità “integrale” sono aumentate anche rispetto al mio conto della serva dell’11 dicembre.
Nel paese che ha abbracciato la libera concorrenza viene da chiedersi per quale motivo, allora, alcune compagnie di trasporti debbano avere una situazione dominante su altre negli organi pubblici di stampa. In altri termini perché il TG nazionale parla di Alitalia e Trenitalia ma non parla di Easyjet e Rynair?
E veniamo al secondo problema del servizio: “Dove Sta La Notizia?” (ai giornalisti piace tanto ripeterlo). Lo dice il sommario del TG2, strillato in apertura: “treno ed aereo si contendono i passeggeri a colpi di sconti e promozioni”. Abbiamo visto, però, che questa non è una notizia, ma, semmai, una pubblicità.
La notizia è piuttosto nel fatto che fra trasporto su rotaia e trasporto aereo il sistema incoraggia il ben più inquinante aereo, fra l’altro più scomodo ed oneroso in termini di mobilità di quanto non lo sia il trasporto su ferro.
E viene da chiedersi per quale motivo, visto che la rete ferroviaria è pubblica.
Terza, ultima, obiezione: perché nessun confronto con le tariffe applicate sulle reti di trasporto estere? Con la Spagna e la Francia ad esempio, tanto per avere un parametro assoluto cui confrontare il livello di affossamento della bella Italia?
Ma certo, scusate, bisognerà pure incoraggiarli, i consumi in patria terra.
Intanto, però, a far due conti, mi sa che mi conviene rinunciare a Torino, prendere un aereo low-cost per Parigi ed andare in TGV fino a Marsiglia…

Treni(talia): il conto della serva ed il diritto di circolare

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tgvRapid
Da un po’ di tempo vorrei andare a Torino, per gustarmi la rinnovata GAM e per scorrazzare fra i vicoli del San Salvario e comprar formaggi dalle parti di porta Palazzo.
Voglio andare a Torino, insomma.
Stamane ho consultato il sito di trenitalia per prenotare un viaggio in largo anticipo.
Scrivo, Roma-Torino. Scrivo andata 4, ritorno 7 febbraio. Un weekend lungo, come si dice.
Se volessi viaggiare rapido e comodo dovrei optare per una soluzione freccia rossa che in 4 ore e 15 minutiprimi dovrebbe lasciarmi a porta nuova, per la ragguardevole cifra di 93€ in seconda classe sola andata. Altrettanti denari dovrò esborsare per il ritorno, raggiungendo la quota di 186 euro, se la matematica non mi inganna.
La soluzione più economica sarebbe evitare il frecciarossa e sorbirmi le 8h 30 di percorso dell’intercity notturno, che nella sua classe unica seconda (legittima reale?) mi costerebbe 39,50€. Il che fa 80 euro per ben 17 ore di viaggio (8h30minutiprimi, sempre che tutto vada bene, e di solito niente va bene).
Parliamo di una distanza automobilistica di 700km circa e di un anticipo di prenotazione di circa due mesi.
Al che, mi sono ricordato di Marsiglia, e di Lione.
Lione fu il mio primo TGV. Il battesimo del TGV.
Ricordo ancora la figura da ragazzotto provinciale che feci, quando mi presentai la notte di quel 10 novembre a casa dei miei amici per partire all’indomani mattina.
Avevo una cesta di panini.
Abituato come ero alla tratta Roma-Milano in intercity, e dato il prezzo pagato, mi attendevo sei ore di tragitto.
Il viaggio dura due ore scarse, mi spiegarono. E risero della mia tasca di panini, che furono divorati la notte stessa, mentre vegliavamo per l’attesa partenza.
In Italia sembra proprio che il panino bisogna portarselo ancora, soprattutto per non aggiungere agli 80 euro dell’intercity i dieci per panino e bibita.
Nel paese della gastronomia.
Poi venne Marsiglia: circa 770 km di distanza stradale divorati in TREORETRE.
Aspetta. Roma-Torino. Parigi-Marsiglia. Quasi un percorso equivalente.
Divento verde.
Grigio.
Rosso.
Le vene mi spuntano dal collo.
E mentre faccio fumo dalle orecchie digito http://www.voyages-sncf.com, il sito della rete ferroviaria francese.
Scrivo, Paris-Marseille. Scrivo andata 4 febbraio, ritorno 7.
Qui le opzioni non riguardano il tipo di treno, che è sempre il superrapido TGV, ma la tariffa.
Eh si, perché se sono disposto a trovarmi alla gare de Lyon ben mattiniero, alle 7:15, il prezzo sola andata è di 22 euro, per tre ore di percorrenza.
Ma se sono più pigro… è uguale, perché alle 8:16 ho un altro treno veloce, sempre a 22€, come quello dell 10:15 del mattino, del resto, preceduto da due CARISSIMI “prem’s” à 25€. E per il ritorno le tariffe sono analoghe. Il che mi fa spendere massimo 50 euro per una andata ritorno Parigi-Marsiglia, che fra l’altro rispetto al trenitalico Roma-Torino fa 140km complessivi in più.
E mi scuso infinitamente col lettore per questi conti della serva, sperando che egli sappia trarne le giuste conclusioni sul senso dello sviluppo, sul ruolo dei trasporti nella vita d’un paese civile, sul valore che un popolo dovrebbe dare alla propria capacità di mobilità interna.
A proposito… nelle spese per il TGV è inclusa anche la spedizione (gratuita) del biglietto a casa mia.
Peccato solo che io voglia andare Torino.

AIDS: passate col rosso

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Visto che l’articolo era lungo e visto che ieri, in occasione della giornata rossa contro l’AIDS nessuno ne ha parlato, credo che sia il momento giusto per rilanciare qui Duesberg, e ricapitolare in qualche punto perché bisogna diffidare della teoria AIDS / HIV.
1. L’AIDS come malattia esiste, non è questo che si nega bensì la relazione fra la sindrome e l’HIV;
2. I test anti-HIV non provano la presenza del virus nell’organismo, ma (a) o ne identificano alcune sequenze genetiche nelle cellule del presunto ospite, (b) oppure cercano gli antigeni nel sangue. Chi si immagina che la sieropositività sia verificata con la vista “corpuscolare” dell’HIV si sbaglia: il virus non viene isolato in nessun test.
Inoltre la positività al test inducendo nel paziente uno stato di ansia e terrore potrebbe essere una delle cause del deficit immunitario. Per questo l’associazione “Alive and well” SCONSIGLIA di fare il test HIV. Insomma, non date retta a Mastrandrea;
3. L’AIDS, se fosse un’infezione dovuta ad un microorganismo, dovrebbe rispettare i postulati di Koch, che invece non rispetta;
4. La sieropositività è trattata con un farmaco chemioterapico, l’AZT, che sembra abbia effetti letali proprio sul sistema immunitario;. Una recente proposta delle case farmaceutiche vorrebbe impiegare l’AZT anche per il trattamento della cosiddetta sindrome dello yuppie;
5. A differenza delle malattie contagiose e dovute a microorganismi l’AIDS colpisce specifiche fasce della popolazione. Esistono inoltre tre tipi diversi di AIDS, strettamente legati alla geografia: si parla di AIDS africana, occidentale, asiatica.
6. Una relazione fra HIV e AIDS è indimostrabile. L’HIV potrebbe essere solo un microorganismo parassita, indirettamente legato alle immunodeficienze.

Peter Duesberg. Photo by Robert Holmgren/ZUMA Press. © 2003 - Robert Holmgren

Peter Duesberg. Photo by Robert Holmgren/ZUMA Press. © 2003 - Robert Holmgren

Secondo Duesberg ed altri illustri immunologi, virologi e genetisti, l’AIDS sarebbe legata a fattori ambientali, in particolare all’esposizioni ad agenti chimici, come alcune droghe e l’inquinamento.
L’immunodeficienza è inoltre legata agli stili di vita, allo stress, all’inquinamento.
Era così per i primi gruppi in cui venne diagnosticata (omosessuali di san francisco esposti al consumo di stimolanti e ad una vita sessuale particolarmente intensa) e continua ad essere così per una malattia il cui agente patogeno sembra “discriminante”, colpisce cioé solo determinate fasce della popolazione.
L’ipotesi Duesberg non passa alla radio ed alla TV perché è molto più facile e compatibile col sistema prendersela con un microorganismo altro da sé che con gli stili di vita, cui sempre di meno riusciamo a rinunciare.
L’edonismo delle nostre civiltà occidentali, la denutrizione dei paesi del terzo mondo, l’inquinamento, l’esposizione ad agenti chimici, lo stress da lavoro; sono questi gli squilibri che provocano l’AIDS.
Ma la vendita dell’AZT è un business ghiotto, ghiottissimo, per i grandi Trust farmaceutici.E ieri, con la celebrazione del rito collettivo della grande giornata rossa dell’AIDS, abbiamo visto come le televisioni includano nel pacchetto pubblicità anche lo spazio telegiornalistico. Nessuna citazione della questione Peter Duesberg né di Kary Banks Mullis (nobel per la chimica).
S’è preferito parlare delle soubrette e delle cantanti che si vestono di rosso e fanno solidarietà in giro per il mondo.
Ma intanto nessuno s’è chiesto: perché abbiamo una giornata dell’AIDS, malattia che totalizza 2milioni di morti l’anno, ma non esiste una giornata contro la diarrea che di morti ne produce altrettanti, o, peggio, contro la fame nel mondo, che si calcola sia il principale agente patogeno del pianeta?

il film “The other side of AIDS” in versione integrale su google video
La questione del negazionismo

Roma: la pittura di un impero. Nascita dell’Europa.

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roma-pittura
L’Impero Romano è stato ed è per l’Europa una sorta di ossessione geopolitica. La sua nascita e disgregazione ha avuto conseguenze sulla forma mentis e sulle strutture stesse del potere europeo, sempre dilaniato fra l’idea di unità universale e le differenze linguistiche e culturali.
Differenze delimitate proprio dall’incontro dell’Impero con le popolazioni autoctone e dal complesso cammino di dominio e sottomissione, integrazione e avanzamento tecnologico, che tutti i popoli (italici prima che europei) hanno vissuto al passaggio dei latini.
Le radici romane dell’Europa e della modernità intera, possono essere riscoperte in questi giorni e fino al 17 gennaio, proprio nella capitale, alle Scuderie del Quirinale che celebrano il loro decennale con la mostra “La pittura di un impero”, curata da Eugenio La Rocca ed affidata alle cure scenotecniche di Luca Ronconi e Margherita Palli.
Siamo partiti dall’ossessione imperiale dell’Europa, perché il percorso fra le cento opere in mostra ci parla del primato della pittura romana nella definizione stessa dei confini, degli obiettivi e delle forme dello stile moderno.
In questi affreschi ed encausti v’è già tutta la storia dell’arte del vecchio continente. Dal Rinascimento all’Impressionismo, dal Bizantino alla pittura industriale, la storia dell’arte imperiale sembra ripercorre le stesse tappe che dalla maniera moderna portarono all’Espressionismo.
Se il I stile imperiale si richiama esplicitamente alle suggestioni dell’arte greca, concepita come modello di equilibrio e grazia, ben presto vediamo i pennelli di questi anonimi pittori latini, approdare ad un più spiccato gusto per la stranezza e l’insolito, per poi spingersi nelle pieghe del sentimento e dell’esagerazione emozionale, con i possenti encausti delle province desertiche dell’impero.
Vi si riconoscerà la parabola del Rinascimento, il quale dalla compostezza palladiana, scivolava via via verso l’ibridazione delle forme e degli stili, fino al manierismo, ed agli articolati “trattenimenti” del Barocco. Dal I al IV stile pittorico come un cammino che ci guida da Palladio all’Arcimboldo.
Questo strettissimo rapporto di continuità – anche “evolutiva” – della pittura romana con la rinascita dell’arte nella maniera moderna – che per l’Europa intera segna anche l’inizio della Modernità tout court – come è noto trova riscontro aneddotico in moltissime fonti Rinascimentali, dalle anonime “Antiquarie prospettiche romane”, alle Vite del Vasari.
Testimonianze da cui si apprende come l’ispirazione della nuova pittura di decorazione rinascimentale, venisse da quegli insoliti figurini e motivi floreali dipinti sulle volte sotterranee degli ipogei del Colle Oppio, solo più tardi identificati con la Domus neroniana.
In quei saloni, si calarono tutti, fisicamente ed intellettualmente, ad ammirare e copiare le “grottesche”: Raffaello, Michelangelo, Lippi, Perugino… solo per restare al Rinascimento.
La continuità fra antichi e moderni è quindi solidissima, perfetta, perché storica e stilistica.
Ci viene in mente per primo il notturno rinvenuto nel “Stanza nera” della Farnesina (Triclinio C), dove nel blu intenso della notte silenziosa, con mistica sensibilità, l’anonimo artista accenna appena l’impressione retinica d’un paesaggio. È umbratile quiete che suona quasi impossibile se guardiamo alla vivida deformità delle pitture rinvenute a Pompei, nella casa detta del Bracciale d’oro, di cui la mostra alle Scuderie annovera un rigoglioso esemplare dal gusto arcimboldiano: arcimboldiano è anche il frammento che conserva una lotta fra polpo, aragosta e murena, trovato a Roma, nella villa del porto fluviale di S. Paolo.
Altri paralleli sgorgano ancora più possenti, nel caso, ad esempio, delle Sfere Armillari, macchine per lo studio dei movimenti cosmologici, la cui rara raffigurazione in un affresco della villa S. Marco a Stabia (62-79 d.C.), ricorda addirittura le forme dei trionfi teatrali dei fasti romani del Cardinal Riario o delle macchine sceniche pensate da Michelangelo.
Ma c’è davvero spazio per sbizzarrirsi in paralleli arditi, spingendosi fino al raffronto con le avanguardie del Novecento, che forse non a caso vissero in una Europa al suo ultimo, tragico, confronto con l’idea di impero.
Basti guardare le atmosfere enigmatiche e misteriose della “Punizione di Dirce”, che in una casa di Pompei del 40-50 d.C. anticipavano già certe prospettive oniriche del surrealismo; o la “Testa di medusa alata”, sempre pompeiana, la quale è un’allucinata rappresentazione di sofferenza dai toni quasi munchiani.
C’è qui tutto lo scibile artistico europeo: dall’impressionismo d’età augustea (meraviglioso il “Paesaggio e barche su fondo nero”, Pompei, 30-37 a-C.), alle deformità dilettose della natura, all’enigmatica ieraticità delle figure di Perseo ed Andromeda, che nella ricerca della dimensione spirituale ed astratta traducono le irrequietezze e le angosce del tardo impero (Nicchia del teatro Marcello, 375 d.C.) in occhi sgranati e pose astratte.
È a partire da questa figurazione penetrante e simbolica che infine l’impero romano si riversa appieno nell’arte cristiana: i mosaici di Ostia del III secolo d.C. sono tutt’uno con quelli provenienti dal medio oriente siriano e cristiano, da Madaba e dalle sue “pitture in pietra”.
E nella mostra alle Scuderie c’è spazio anche per queste remote province dell’Impero, solidali per gusto e raffinatezza alla punta di diamante del continente, a Roma, come mai forse è accaduto nella lunga storia degli imperialismi. Sono questi forse i pezzi più singolari del percorso: gli encausti di Hawara, in Egitto, la cui lavorazione a cera e colore anticipa il vigore luminoso dell’olio fiammingo.
È Roma, ed è tutta qui, in queste cento opere, nella muta espressione di una pittura che lascia testimonianza d’un impero violento e gentile, colonizzatore e modernizzatore, volgare e poetico, etico ed iniquo, retto e vizioso.
D’un potere culturale ancor prima che politico che volle tutta per sé – ed in definitiva inventò – l’Europa.

Wittgenstein e il ctrl + z

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tour de tours. photorights www.artmobbing.eu
Se le interfacce sono una simulazione sempre più perfetta della realtà non dobbiamo dimenticare che restano, appunto, una simulazione.
L’affermazione è meno banale se pensiamo alla più peculiare differenza fra realtà ed interfaccia: la reversibilità delle operazioni.
Ciò che infatti caratterizza il virtuale – che esso sia il volto bidimensionale del mio sistema operativo o una complessa simulazione a tre dimensioni per l’apprendimento delle tecniche di aviazione o ancora una esperienza “immersiva” di gioco – è la possibilità di muoversi avanti ed indietro nella scala temporale, con la possibilità di forgiare la realtà attorno alle nostre azioni, che in questo modo si moltiplicano e (dovrebbero) perfezionarsi.
Ad un corso di alfabetizzazione informatica un mio amico, per far comprendere l’operazione crtl + z – quella comunemente denominata “annulla” – ha portato un esempio che ha stupito più d’uno degli auditori. È – diceva – come se mi cadesse il telefono frantumandosi in mille pezzi, ed io potessi tornare indietro nel tempo. Una signora ha quasi applaudito per la geniale trovata.
Le interfacce sono una forma totalizzante di linguaggio, perché combinano tutti o quasi gli universi segnici, in modo verticale, cioè simultaneo. Con il linguaggio d’altronde le interfacce condividono, ed anzi potenziano, l’artificio semantico della metafora: il caso più lampante è l’organizzazione dei sistemi operativi in “finestre” (ma su cosa affaccino queste finestre, poi, nessuno sarebbe capace di spiegarlo…).
In quanto iper-linguaggi le interfacce possono essere considerate delle iper-metafore.
Il gioco di specchi delle metafore sempre impiegate dal linguaggio, il quale così si delinea come metafora totalizzante del Mondo, spingeva Wittgenstein ad affermare che il linguaggio non solo descrive il Mondo, ma ne significa i limiti.
«La proposizione è un’immagine della realtà: Infatti io conosco la situazione da essa rappresentata se comprendo la proposizione. E la proposizione la comprendo senza che me ne si dia il senso.» (Tractatus, 4.021). Ma, prosegue il filosofo, non potrò mai spiegare se non con delle altre proporzioni, il rapporto che intercorre fra queste ed il Mondo.
Bel problema.
Cui si aggiunge la contrapposizione fra dire e mostrare: il “cono d’ombra” del linguaggio, ciò che esso non può dire, è «ciò che può essere solo mostrato». È questo ultimo dettaglio che completa il quadro sulle interfacce, linguaggi tanto più autoritari in quanto potenziano la metafora, in un “dire che può essere mostrato”.
Se la realtà è sempre più contenuta nella metafora del virtuale come cambia il nostro rapporto con il Mondo?
Non saprei dire.
Ma la cultura che ha prodotto le interfacce, in esse descrive il suo preciso rapporto con la realtà, una realtà che si fa elastica e che può facilmente essere piegata al proprio volere. Pensaci. Quanto e come pensiamo di forgiare il Mondo al nostro volere, oggi?
La signora che si stupiva e desiderava impiegare il comando annulla nelle cose della sua vita, probabilmente si convincerà, un giorno, che anche la sua esistenza può essere annullata o riavviata.
Rewind.
Shut-down.